
Regia – Lorcan Finnegan (2025)
Non ricordo dove ho letto che gli australiani, dagli anni ’70 a oggi, hanno fatto e rifatto sempre gli stessi due film: Mad Max e Wake in Fright. Il discorso, per quanto iperbolico e troppo semplificativo, si applica, evidentemente, anche agli irlandesi trapiantati in Australia, come Finnegan in questo caso.
Finnegan ci ha dimostrato di saper raccontare l’orrore claustrofobico degli spazi aperti, ma senza via d’uscita: Vivarium, nel 2019, raccontava di un quartiere periferico ampio, soleggiato, circondato da siepi e alberelli che, nelle sue mani, diventava il territorio di uno degli incubi più opprimenti del XXI secolo.
Dai sobborghi degli Stati Uniti, il regista si trasferisce su una splendida spiaggia australiana, ma sempre di un luogo che ti imprigiona si tratta.
Credo sia da questo che si gli autori si riconoscono: dal riproporre temi simili con differenti dinamiche; a uno sguardo superficiale, non potrebbero esserci due film più distanti come The Surfer e Vivarium, anche solo da un punto di vista estetico: freddo e tutto virato al verde il primo; caldo e con una dominante arancione il secondo. Però si somigliano, perché entrambi sono la storia di persone che perdono progressivamente la propria identità e le proprie sicurezze, chiuse in spazi che sono sia fisici sia metaforici. Entrambi, ovviamente, sono film splendidi.
Il surfista del titolo è Nicolas Cage (bravissimo e incredibilmente misurato), un uomo d’affari intenzionato a comprare la casa in cui è nato e cresciuto, sulla bellissima Luna Beach. Prima di chiudere il contratto, porta con sé il figlio adolescente per fargli una sorpresa e per surfare insieme. Una volta lì, però, trova la spiaggia occupata da un gruppo di surfisti locali, che lo prendono a male parole, lo umiliano di fronte al figlio e alla fine lo cacciano: soltanto ai residenti è permesso scendere in spiaggia e, per quanto il nostro protagonista senza nome, abbia passato lì la sua infanzia, non è considerato abbastanza del posto per avere accesso al mare.
Lui però non è tipo da accettare un no come risposta e, una volta riportato il pargolo dalla madre (dalla quale è separato), torna a Luna Beach per ristabilire le giuste gerarchie, che questi bifolchi da spiaggia non si devono permettere di dire a uno che guida una Lexus cosa deve o non deve fare.
A quel punto, il film diventa davvero Wake in Fright.
Per rinfrescare un po’ la memoria a chi mi legge, Wake in Fright è un film del 1971, uno dei capostipiti della New Wave australiana e dei progenitori della Ozploitation. Per farla molto breve, racconta dell’abisso di degrado fisico e morale in cui discende un insegnante che si trova bloccato in una piccola cittadina dell’Outback.
La stessa cosa succede al nostro Nic Cage in eleganti abiti da borghese: nel momento in cui decide di opporsi alla gang di surfisti di Luna Beach, lo aspetta una trasformazione completa, una caduta repentina e violenta negli strati più bassi della società, la regressione a una creatura affamata, assetata, sporca e belluina, un rifiuto sotto il sole spietato dell’estate australiana, deriso, maltrattato, picchiato e costretto a mettere in discussione la sua stessa identità.
Come vedete, siamo nello stesso campo da gioco di Wake in Fright, è quasi un remake non dichiarato con i surfisti al posto dei redneck dell’entroterra, e un ricco americano (il surfista è nato in Australia, ma ha vissuto in California dai dodici anni in poi) al posto di un professore della classe media e istruita.
I surfisti, capitanati dal rampollo di buona famiglia Scally (Julian McMahon) sono ispirati a una vera banda di surfisti (questi californiani) i Bay Boys, famosi per il loro atteggiamento aggressivo nei confronti dei non residenti; il loro modo di fare è simile in maniera sinistra a quello di un culto. Anzi, non simile: sono un culto a tutti gli effetti, un culto della mascolinità che viene preservata attraverso una serie di prove dolorose (Surfer Suffer è il loro motto) e riti di iniziazione.
È vero che The Surfer è più un thriller psicologico che un horror vero e proprio, ma ha tantissimi elementi in comune con il folk horror: c’è un personaggio che arriva da fuori e rappresenta la civilizzazione e la razionalità, e c’è un gruppo di locali provvisti di un forte sentimento identitario che, quando vedono un estraneo e non riescono a cacciarlo, passano a distruggerlo. O ad assimilarlo, sempre che si riveli all’altezza.
Però siamo in Australia, non nella brughiera e, per quanto Finnegan sia irlandese, c’è una diversa relazione con il territorio da quelle parti, di cui abbiamo parlato fino allo sfinimento e per questo ve ne risparmio l’ennesima descrizione.
Vi basti sapere che la vita di comunione con la natura degli abitanti di Summerisle non è la stessa dei surfisti sulla selvaggia e niente affatto addomesticata costa australiana: se da quelle parti ti capita di venire progressivamente spogliato da ogni vestigia della civiltà, sei alla mercé di uno dei luoghi più ostili e inospitali al mondo, anche a pochi passi da un barbecue sulla spiaggia allestito dai tuoi simili: se fosse sulla luna, la distanza sarebbe la stessa.
Più che depositari di un antico sapere, che è più o meno la cifra del folk horror tradizionale, i surfisti sono depositari di un patto privilegiato con l’Australia e tutto ciò che essa comporta, dal quale il resto del mondo è escluso, e questa esclusione si paga a caro prezzo.
The Surfer è quindi un film molto frustrante perché condividiamo il punto di vista dell’escluso, che a un certo punto arriva a non riconoscersi neanche più, talmente i continui atti di bullismo gli hanno strappato via tutte le convinzioni che aveva a proposito di se stesso, del suo posto nel mondo e nelle gerarchie della società contemporanea.
Non c’è niente di positivo nella setta di surfisti, non c’è una lezione da imparare da loro, lo stile di vita che predicano è tutto storto, tutto sbagliato; ma dal canto suo, il protagonista ha un’arroganza e una sicumera ossessiva che in realtà lo rendono il perfetto candidato per entrarne a far parte. È su questa ambivalenza, su questo specchiarsi gli uni negli altri che si regge il delicato equilibrio di un film allucinato, sporco e rovente.
Pura Ozploitation trasferita con successo al XXI secolo.











Spazi aperti e sconfinati che, per contrapposizione, rafforzano il senso di isolamento, solitudine, alienazione del protagonista… Dopo la visione di The Substance mi sono convinto che anche la Fargeat – al netto della critica sociale – tiene soprattutto a fare un lavoro di analisi e introspezione usando questo espediente dello spazio come misura e definizione di sé: la villa dove si consumava la violenza e vendetta di Jen in Revenge molto somiglia a quella di Elisabeth – entrambe si affacciano su spazi aperti e sconfinati ma sempre con corridoi lunghissimi e asfissianti. Devo dire che Vivarium mi ha fatto davvero vivere l’angoscia delle costrizioni e delle aspettative sociali sull’individuo qui la frantumazione dell’io e la perdita dell’identità si sente ma con meno forza, l’omaggio ai Settanta dalla grafica, alla fotografia e certe soluzioni registiche è davvero evidente. Cage da Face/Of a Dream Scenario e The Surfer.
p.s. da un paio di mesi è uscita una raccolta di racconti di Julia Elliott (Hellions), i suoi studi e un certo background e temi la avvicinano molto ad Angela Carter.
E così Cage azzecca alla perfezione un altro ruolo, con tanti saluti detrattori di professione. OK, venduto (Finnegan già ai tempi di Vivarium l’avevo gradito assai)… 👍
io non ci ho capito nulla. Alla fine Cage era quel vecchio impazzito ?
No no, era solo che lo hanno ridotto in uno stato tale da crederci.