Clown in a Cornfield

Regia – Eli Craig (2025)

L’estate senza slasher non ha senso di esistere, e così Shudder ci ha fatto la cortesia di distribuire in streaming questo film proprio a metà giugno.
Di Clown in a Cornfield ho letto di recente il romanzo di Adam Cesare e, per quanto il film sia stato, anche giustamente, pubblicizzato come uno slasher su un clown assassino che fa strage di adolescenti in una cittadina rurale degli Stati Uniti, è molto più di questo. Cesare non scrive solo young adult, ma la serie di Clown in a Cornfield è young adult. È un dettaglio di importanza fondamentale per comprendere sia il libro sia il film, perché io credo che, quando ci mettiamo ad analizzare un’opera, sia necessario sapere a chi è rivolta, anche solo per una questione di aspettative.
Sul Letterboxd ho letto che Clown in a Cornfield potrebbe essere uno slasher prodotto da Nickelodeon, qualora l’emittente televisiva realizzasse programmi R rated. Mi sembra la descrizione più pertinente per il film.
Non parla quindi a noi, parla a tutt’altra fascia di età.

È la storia della diciassettenne Quinn (Katie Douglas) trapiantata contro la sua volontà da Philadelphia a Kettle Spring, solito buco sperduto in bifolcolandia, anzi, in Missouri. Il motivo del trasloco è la morte per overdose della madre; il padre, che faceva il medico di pronto soccorso, non è più in grado di mettere piede in un ospedale senza avere un attacco di panico, e quindi accetta il lavoro di dottore di campagna in questo luogo ameno. Che ameno non è per niente: l’economia locale si reggeva su una fabbrica di sciroppo di mais che è stata data alle fiamme. Adesso, Kettle Spring è quasi una città fantasma, depressa e rabbiosa.
A essere accusati dell’incendio sono dei ragazzi con i quali Quinn fa subito amicizia. Non si tratta di giovane delinquenza autoctona, anzi: Cole, il leader del gruppetto, è addirittura il figlio del magnate di Kettle Spring. Sono giovani normalissimi, magari un po’ esuberanti, e detestati senza alcuna cordialità dalla fauna adulta.
Per festeggiare il centenario della fondazione di Kettle Spring, Cole dà una festa in un granaio abbandonato in mezzo ai campi di granturco, e lì arriva Frendo, la mascotte della cittadina, il simbolo della sua passata prosperità, ad ammazzare i ragazzi uno a uno.

Come dicevo prima, non è tutto qui, ma vi dovete accontentare e guardarvi il film. C’è, ovviamente, un colpo di scena che ridisegna l’ossatura della vicenda. Nel romanzo, è piazzato circa a metà; nel film lo mettono verso la fine, ma si intuisce con largo anticipo. 
La cosa importante da segnarvi sul taccuino è che in tutto il film si respira un’aria da guerra generazionale pronta a esplodere da un istante all’altro, e che questo conflitto è il cuore di Clown in a Cornfield. 
Ne abbiamo parlato pochi giorni fa a proposito del nuovo Fear Street: lo slasher contemporaneo tende spesso a fare appello alla nostalgia, anche quando in realtà il suo pubblico di riferimento è composto da gente che gli anni ’80 o ’90 non li ha mai vissuti. 
Clown in a Cornflied rigetta in blocco questo tipo di impostazione: è ambientato ai giorni nostri, i protagonisti sguazzano nel brodo culturale degli anni ’20 del XXI secolo e, anzi, la nostalgia è una faccenda guardata con un certo grado di sospetto. Perché la cugina di primo grado della nostalgia è la tradizione, ed entrambe mietono vittime. 

Di conseguenza l’operazione che compie Clown in a Cornfield è un po’ meno equilibrista rispetto a quella di un Fear Street (anche la trilogia originale) o anche dei nuovi Scream: non tenta di richiamare in sala il pubblico più giovane con una mano e di abbracciare i vecchi nostalgici con l’altra: a noi adulti ci schifa proprio. Siamo ripugnanti, reazionari, stupidi, imbarazzanti anche quando benintenzionati. E in questo diventa una riproposizione molto fedele del vero slasher degli anni ’80 0 ’90, quando delle persone adulte non c’era mai da fidarsi.
Persino il padre di Quinn, che ce la mette tutta, è un personaggio positivo e ha una funzione eroica e salvifica, passa metà del film a non capire assolutamente niente della figlia, a non ascoltarla, a essere tentato dalle sirene tradizionaliste di Kettle Spring, quasi a voler indicare che si tratta di un virus cui siamo tutti esposti, una volta diventati grandi.
La tradizione è una ruggine che erode la coesione sociale, ovvero l’esatto contrario di quello che la popolazione maggiorenne di Kettle Spring pensa che sia.
E questo è il messaggio di fondo del film e del romanzo da cui è tratto, che Eli Craig e gli sceneggiatori hanno rispettato, con una certa dose di sorpresa da parte mia, fino alle conseguenze più estreme. 

Poi, da un regista come Eli Craig io non mi aspetto trattati socioligici sul rapporti tra generazioni; mi aspetto una horror comedy fracassona, divertente, un po’ meta, smaliziata e molto consapevole. La bella notizia è che Clown in a Cornfield è tutte queste cose. Meno intelligente di Tucker and Dale vs Evil nell’andare a sezionare i meccanismi del genere, ma è anche vero che si tratta di due film con un’impostazione molto diversa: Tucker and Dale era una classica commedia degli equivoci infilata in un contesto da horror coi redneck; la struttura di Clown in a Cornfield è quella dello slasher in purezza, seppure anche qui ci sono i redneck e non sono quello che sembrano in prima battuta. 
Rispetto al romanzo, taglia qualcosina e alleggerisce la parte finale, che su pagina era molto spiegata e parlata. Azzoppa anche un po’ i vari protagonisti per quanto riguarda il loro spessore, pur mantenendone gli appuntamenti narrativi. Ma lo sappiamo da sempre: adattare è spesso semplificare. 

C’è un sacco di sangue, almeno un paio di morti sorprendenti, si ride spesso e i giovanissimi attori sono tutti molto bravi. Tra gli adulti, che comunque se ne restano sullo sfondo, è da segnalare la presenza di Kevin Durand, cui si vuole bene per definizione.
Ho sentito che ne parlano come di uno slasher generico, quando invece non lo è affatto, non se gli usa la delicatezza di guardarlo con attenzione. Come mi aspettavo, a dirlo sono quasi tutti over 40, e va bene così. Capisco che sia difficile apprezzare qualcosa che non fa appello a ciò che amiamo, e che al contrario tende a ridicolizzarlo, ma sta proprio qui la caratteristica più vitale del film. Prendere o lasciare. Non siamo più i protagonisti, o meglio, lo saremo in decine e decine di film ancora, perché pare che l’ondata nostalgica non sia affatto in fase di riflusso. Ma è rinfrescante vedere un film che non solo ne fa a meno: la mostra come l’origine di un male che si perpetua nel tempo e che solo una diciassettenne incazzata è in grado di fermare.

5 commenti

  1. Avatar di alessio

    Insomma, ci dovrebbe essere l’America rurale e dei redneck (una nuova Hillbilly Elegy dove l’Appalachia è ristretta al microcosmo di Kettle Spring, con Quinn e Kevin Durant che rappresenterebbero le due facce di J. D. Vance: lei – la giovane – ovvero il riscatto e il futuro attraverso la fuga pronta a inseguire opportunità attraverso lo studio; lui – il vecchio – ovvero la rappresentazione del passato, dunque chiuso e reazionario, la cui visione del mondo è una sorta di “Ordo Amoris” tutta personale nella quale il solo cerchio concepito è quello di coloro che si identificano e difendono la tradizione). La tradizione, ancora, ovvero questa ottusa illusione della perpetuità (per dirla alla Allen) e che porta allo scontro inevitabile coi padri (per dire quanto tutto il mondo sia paese: i parrucconi dell’AELTC di Wimbledon sino all’anno scorso obbligavano al bianco anche per l’intimo sino a quando Jessica Pegula e le altre anno detto basta, noi in campo in “total white” durante il ciclo non scendiamo). Il groviglio dei campi di mais come metafora della provincia (e un presente?) opprimente dal quale è impossibile sfuggire. Dallo scontro generazionale naturalmente l’incomunicabilità (con l’unico momento davvero divertente del film, Quinn che non trova i tasti del “bigrigio” e non riesce a chiamare!). Se in Prom Queen abbiamo la migliore amica (queer) della protagonista che si diletta in effettacci speciali alla Nicotero e Baker qui invece abbiamo tutti epigoni di Leone una volta con il cellulare (unica possibilità di sfogo) in mano. Davvero tanto, tanto materiale ma davvero tutto, tutto troppo tagliato con l’accetta senza un minimo approfondimento (c’è anche il tema dell’orientamento sessuale, per dire); alla fine un grande senso di incompiuto.

  2. Avatar di Blissard
    Blissard · ·

    Bella analisi, non ho letto il libro e, come hai scritto anche tu, mi sembra che le tematiche su cui è incentrato si ritrovino anche nel film.

    Mi è sembrato un teen slasher gradevole ma non all’altezza del talento iconoclasta di Eli Craig: i dialoghi e la messa in scena sono superiori alla media del genere, ma a questo giro il regista sembra più interessato a portare il risultato a casa senza rischiare troppo e anche il sottotesto “politico” appare un po’ banalotto.
    Però c’è un clown assassino, ci sono ettolitri di sangue, un rapporto padre-figlia non troppo stereotipato e omicidi creativi, quindi è inutile lamentarsi.

    C’è anche da dire che, come hai giustamente detto tu, non rappresento anagraficamente il pubblico di riferimento del film

    1. Avatar di Lucia

      Sì, essendo un film tratto da un romanzo young adult è anche normale che tutto il sotto testo politico sia molto semplice e un po’ tagliato con l’accetta. Però, ecco, non è per noi, il film, quindi noi possiamo limitarci a divertirci con gli omicidi e a ridere di alcune sequenze.

      1. Avatar di Frank La Strega

        Mi ha fatto un effetto “strano”. Cioè, mi ha fatto… “stare bene” alla fine, come quasi un “comfort movie”. Possibile?

        Mi allargo un attimo, a “sentimento” (tanto non mi è mai davvero chiaro come mi funzioni “dentro” davvero una storia). È vero che non sono il “target” eppure, da persona che è ripartita nella vita più volte, mi ritrovo a vivere dinamiche sociali e relazionali “da trasferimento” che mi rendono vicini i teen movies (soprattutto quelli belli davvero) tanto che alcuni sono tra i miei film preferiti. L’horror estremizza, taglia, anche semplifica talvolta… ma l’impatto di una persona “slegata” da dinamiche locali, “storiche”, ideologiche, generazionali… che si sposta (anche per lavoro) e lo sforzo di “adattamento” e “comprensione” non è così lontano dal coming of age o dallo sguardo separatorio che qui è rivolto ad una generazione. Tanto più che, oggi, io ancora “cresco” nel rapporto con gli altri (pur avendo i miei punti fermi).

        Questo tipo di film ha su di me anche un effetto “catartico” che personalmente adoro.

        Tucker & Dale è… Tucker & Dale!❤️

        1. Avatar di Lucia

          Ma guarda, io da persona che è perennemente sradicata da un punto di vista sociale, mi ritrovo sempre tantissimo nei teen movie, che poi diventano, appunto, dei confort movie. Quindi capisco perfettamente il discorso.