
Regia – Bill Condon (1995)
Bentornati, miei teneri mostricciattoli, a una nuova stagione del Ciclo Zia Tibia. Abbiamo iniziato a chiamare così le rassegne estive di B movie nel 2015 ed eccoci qui, dieci anni dopo, arzilli e pimpanti come non mai. Zia Tibia scalpitava per tornare a prendere il controllo del blog, e io mi sono preparata una lista lunga un chilometro di film che potrebbero fare al caso suo.
Nella scelta dei titoli andremo, come al solito, a sentimento, senza seguire un particolare filo conduttore; sarà una programmazione casuale, come quella delle reti televisive che, tra giugno e agosto, buttavano nel palinsesto horror alla come capita e contribuivano, senza esserne coscienti, alla creazione di un’orda di appassionati.
Però, ci tenevamo a cominciare con un film che avesse tra i protagonisti il grande Tony Todd, scomparso alla fine del 2024 e colossale icona del genere. Il sottovalutato seguito di Candyman esce nel marzo del 1995 ed è quindi ufficialmente un trentenne. No, non è il complehorror del mese, ma si parte comunque con una festicciola.
Come spesso accade in quel di Hollywood, quando si decide di fare un sequel di un film di successo, in particolare se horror, ci si guarda bene dal dare retta a chi quel successo lo aveva assicurato: Bernard Rose, regista di Candyman, aveva delle idee molto interessanti per proseguire la storia dell’uomo con l’uncino. Ma alla Polygram queste idee non piacquero, e quindi si cambia tutto e si ricomincia da capo: nuovo regista, nuovi sceneggiatori, nuova ambientazione. Rimangono soltanto Tony Todd, Philip Glass e il buon Barker che si prende il titolo di produttore esecutivo.
Rose aveva proposto alla produzione due soggetti: il primo doveva essere in parte un prequel, che raccontasse la storia di Candyman, e in parte il consolidamento della sua leggenda. Per usare le parole di Virginia Madsen, il personaggio creato da Barker sarebbe diventato una sorta di Dracula afroamericano. Il secondo soggetto voleva dare una dimensione antologica all’eventuale saga che ne sarebbe scaturita, ovvero esplorare altre leggende urbane, prendendo come spunto diversi racconti di Barker. Il primo a essere adattato, nelle intenzioni di Rose, doveva essere Macelleria Mobile di Mezzanotte.
Come sappiamo, non se ne fa niente né dell’uno né dell’altro; in compenso, qualcuno adatterà Midnight Meat Train nel 2008, mentre rimane comunque qualche traccia del concept di Rose nel film che è stato effettivamente realizzato. Non è proprio un prequel, Farewell to the Flesh, ma va indietro nel tempo alla ricerca delle origini del mito, anche se nel farlo contraddice il suo predecessore. Cosa d’altronde normale ai tempi, quando della coerenza narrativa tra un film e l’altro tendevano a infischiarsene un po’ tutti.
A dirigere il film arriva Bill Condon, che aveva una certa esperienza come sceneggiatore e ancora poca come regista. Ovviamente non fanno scrivere il film a lui, ma a due sceneggiatori esordienti, che però vendono cara la pelle e non si comportano affatto male.
Date le premesse, i risultati dovrebbero essere sconfortanti, e invece no: Candyman: Farewell to the Flesh è un horror interessante, inferiore di certo al capostipite, ma non il disastro annunciato che ci si aspetta con una storia produttiva del genere.
Da Chicago ci trasferiamo a New Orleans durante il carnevale. Lì, un’insegnante di arte, Annie (Kelly Rowan), mentre cerca di scagionare il fratello dall’accusa di omicidio, commette il tragico errore di pronunciare per cinque volte la parola Candyman davanti allo specchio. Com’è giusto che sia, Candyman appare, ma non la uccide, o almeno non sembra intenzionato a ucciderla subito: loro due, infatti, hanno un legame di sangue, qualcosa sepolto nel passato di entrambi che li tiene uniti. Non più “Be my victim”, ma “Be my witness”.
E così veniamo a sapere che il vero nome di Candyman è Daniel Robitaile, che è nato poco dopo la guerra civile da una famiglia di schiavi (queste sono informazioni che apprendiamo nella prima scena del film) e che le sue origini si trovano proprio a New Orleans.
Cosa voglia Candyman da Annie resta confuso e poco chiaro anche dopo aver scoperto cosa hanno in comune i due, ma non ha molta importanza: Farewell to the Flash è un film tutto d’atmosfera e non ci tiene più di tanto a muoversi secondo una logica ferrea.
Se il primo film era più sottile nel mettere in scena una leggenda che si fa carne, questo è un horror romantico nel senso più profondo del termine: al centro della vicenda c’è infatti la storia d’amore finita malissimo tra Daniel e Caroline, i cui genitori sono i responsabili dell’assassinio di Daniel, e dell’agonia che il poveraccio ha sopportato prima di morire, torturato e umiliato da un gruppo di bianchi.
Forse non aveva torto Virginia Madsnen, quando si riferiva a Candyman come a un Dracula afroamericano: la statura da antieroe tragico ce l’ha di natura. Bisognava soltanto dare un’ulteriore spinta e Farewell to the Flesh la dà anche abbastanza forte. Purtroppo parliamo pur sempre di un horror del 1995, scritto e diretto da bianchi, cui mancavano la sensibilità e il coraggio per andare fino in fondo ed essere davvero eversivi come avrebbe poi fatto Nia DaCosta nel 2021.
Ma anche così, un po’ zoppicando, il film picchia abbastanza duro.
Quella di Candyman è una maledizione scaturita dalla violenza dei privilegiati e il film, pur con una scrittura un filo convoluta, ha intenzione di far passare questo messaggio forte e chiaro: l’America bianca deve fare i conti con le proprie colpe che, com’è noto a chiunque abbia guardato più di un horror in vita sua, ricadono di generazione in generazione, senza curarsi punto dell’eventuale innocenza delle vittime. Non puoi essere davvero innocente, se la tua vita tranquilla e benestante è stata edificata su un ossario: il minimo che puoi fare è prenderne atto, non negarlo, non fare finta di niente, non seppellire le atrocità commesse dai tuoi padri sotto un tappeto di menzogne.
Candyman è la cattiva coscienza di un paese che arriva a sollevare questo tappeto di menzogne. Non è un caso se qui, in maniera ancora più radicale rispetto al primo film, tutti quelli che cadono sotto i colpi del suo uncino sono bianchi.
Poi è vero, lo si può interpretare anche nel senso opposto: l’uomo nero cattivo e maledetto sconfitto dall’eroina bianca che addirittura insegna arte ai bambini (neri) disagiati. Ma è un’interpretazione che si smonta facilmente una volta scoperto cosa davvero hanno in comune Candyman e la protagonista.
Il film funziona e scorre abbastanza bene, con qualche abuso di jump scare soprattutto nella prima parte, quando ogni volta che qualcuno appare alle spalle di Annie gli archi si impennano senza alcuna motivazione plausibile; il confronto tra Virginia Madsen e Kelly Rowan è abbastanza impietoso, ma temo sia più un problema di framing e messa in scena che di recitazione: i famosi primissimi piani sullo sguardo sempre più estatico di Madsen del primo film qui non ci sono, e in generale abbiamo una regia molto più tradizionale e meno ipnotica rispetto a quella di Bernard Rose.
In compenso, credo che l’ambientazione a New Orleans sia stata una scelta molto azzeccata e i momenti più riusciti di Farewell to the Flesh sono quelli in cui la macchina da presa vaga per le strade di questa città carica di mistero e magia.
Tony Todd è, al solito, monumentale: oltre a essere di una bellezza quasi ultraterrena, è minaccioso e fragile allo stesso tempo. Un cattivo atipico, più ferocemente addolorato che malvagio.
C’è anche spazio per far interpretare una signora del Sud a Veronica Cartwright, e noi siamo sempre a bordo quando c’è lei in scena.
Trent’anni dopo, forse sarebbe il caso di smettere di odiare questo film per partito preso. Se volete, lo trovate (purtroppo a pagamento) su Prime.
Buona estate, mostricciattoli.











Bellissima recensione. Confesso di non averlo mai visto, mi sa che è venuto il momento di rimediare
Grazie, Zia Tibia si è impegnata tantissimo. Poi fammi sapere se ti è piaciuto
Appena finito di vedere. La fattura è meno pregiata di quella del precedente episodio, però l’atmosfera southern gothic, fatta di polvere e decadenza, è quella giusta e le musiche fiabesche di Glass sono inquietanti. Peccato per il finale che, a mio parere, sfrutta maluccio l’ambivalente sentimento di Annie nei confronti di Candyman; imperdonabile poi la sequenza conclusiva.
Comunque una piacevole sorpresa il film di Condon, grazie della segnalazione
Più che la sequenza in quanto tale, sono imperdonabili quegli effetti speciali di CGI anni ’90 che fanno sanguinare gli occhi. Terribili, ma anche per l’epoca.
Non lo vidi al cinema ma in vhs e ne conservo un bel ricordo. Magari meno angosciante del primo capitolo, ma comunque riuscito. Adesso ho voglia di rivederlo.
Io anche li vidi direttamente in VHS, subito dopo aver visto il primo, mi precipitai a noleggiare il secondo. A una prima visione ne rimasi delusa. Ma poi col tempo ho imparato ad apprezzarlo.
D’accordo, Condon non è Rose, ma la pioggia di merda riversata sul secondo Candyman l’ho sempre trovata francamente eccessiva. E poi, nello specifico, sembra giusto pure a me che Zia Tibia abbia deciso di dare inizio alle danze ricordando Tony Todd con questo suo iconico villain (molto più segnato, comprensibilmente, da un dolore incommensurabile che non dalla malvagità vera e propria)…
Sì, poverino, lo hanno parecchio maltrattato ai tempi.