
Regia – Zach Lipovsky, Adam B. Stein (2025)
Quando, poco più di un anno fa, ho saputo che la giostra Final Destination avrebbe riaperto i battenti, sono stata felice come una bambina alla vigilia di Natale. Chi mi conosce sa che quella di Final Destination è la mia saga preferita del XXI secolo e, in questa sede, abbiamo parlato tante volte di quanto il suo tono sardonico e beffardo sia la facciata buffa di un abisso di orrore esistenziale che va a spingere con l’eleganza di un ippopotamo sul tasto dolente della nostra mortalità.
Ciò detto, riportare in auge, la bellezza di quattordici anni dopo il quinto capitolo, Final Destination, non era una cosa né facile né scontata.
Sulla carta, per carità, è facilissimo e scontatissimo: tutti i film hanno la stessa struttura, con qualche aggiustamento qua e là. e io sarei andata volentieri a rivederla replicata per la sesta volta senza azzardarmi neppure a lamentarmi; è per questo, dopotutto, che paghiamo il biglietto. Andiamo al cinema per assistere a morti bizzarre e sadicamente orchestrate dal destino infame.
Però è anche vero che, nel 2025, la concezione di sequel è radicalmente cambiata e i sequel tradizionali non esistono quasi più. La carta del prequel a sorpresa se l’era già giocata il quinto, e quella strada era sbarrata; un legacy sequel non lo puoi fare per ovvi motivi: non esistono personaggi in grado di portare il peso dell’intera saga sulle spalle, un po’ perché sono tutti morti, un po’ perché non sarebbero in ogni caso memorabili, Tony Todd escluso, che tuttavia, in questi film, ha sempre fatto la comparsa di lusso e poco più.
Io lo so che accostare la parola intelligenza a Final Destination può sembrare un po’ eccessivo, ma quello che hanno dimostrato i due registi all’opera nel sesto film, è appunto una grande intelligenza. Non sono accreditati come sceneggiatori, perché di fatto non hanno messo mano alla stesura, ma l’idea che ha fatto rinascere il franchise è loro, ed è il motivo per cui alla New Line hanno deciso che sì, si poteva tentare di dare un’altra occasione a Sorella Morte e ai suoi progetti barocchi per rimettere in equilibrio l’ordine delle cose.
In parte, Bloodlines è un prequel: il prologo con disastro annesso si svolge negli anni ’60, e questa volta si tratta di un ristorante sopraelevato che crolla causando centinaia di vittime. La catastrofe viene sventata dalla visionaria di turno Iris, e non c’è più un minuscolo pugno di superstiti che le hanno dato retta, no. Iris salva tutti i presenti. Di conseguenza, la morte ha un bel da fare, che si protrae negli anni e non coinvolge più soltanto chi è scampato al crollo, ma tutta la loro discendenza, dato che la signora con la falce procede in rigoroso ordine cronologico.
Ecco che la maledizione, se così vogliamo chiamarla, ti si attacca addosso anche se non eri presente sul luogo dell’incidente: ti basta essere nato e vagare inconsapevole per il mondo per essere una vittima designata. Anche più di mezzo secolo dopo, la morte arriva, e cinque film ci hanno insegnato che non puoi fregare la morte, che non ti puoi sottrarre al destino che essa ha in serbo per te; il sesto film allarga questa condizione (di nuovo) esistenziale a molte più persone, la allarga, fuor di metafora, all’umanità intera, perché alla fine dei conti, è l’unica cosa che abbiamo tutti in comune.
È un po’ la stessa operazione compiuta qualche mese fa da The Monkey, ma in maniera meno cerebrale, perché sempre di Final Destination parliamo. Non ci sono pretese d’autore, qui. C’è soltanto il desiderio di far salire il pubblico sulle montagne russe e strapazzarlo per un centinaio di minuti, mettendolo di fronte alla propria fragilità, ma senza spaventarlo troppo, anzi, permettendogli di esorcizzarla facendosi due risate sulla pelle dei personaggi affettati, schiacciati, maciullati e smembrati nel corso del film.
E tuttavia, questa volta, dei personaggi ti importa qualcosa, e qui c’è la reale differenza tra Bloodlines e gli altri capitoli della saga: nel primo e nel terzo film il legame tra i protagonisti morituri era stabilito solo dal fatto che andassero a scuola o all’università insieme; nel secondo e nel quarto non c’era nessun legame: erano persone messe insieme dal caso; nel terzo erano colleghi di lavoro e neanche si sopportavano troppo l’uno con l’altro. In Bloodlines il legame prescinde e precede la cognizione del pericolo che si sta correndo, perché sono una famiglia, neppure troppo disfunzionale, con i problemi, gli scazzi e le incomprensioni che hanno tutte le famiglie, ma comunque uniti da un affetto profondo. Sono anche personaggi amabili quel tanto che basta a non esultare quando i loro corpi vengono distrutti in modi creativi. Si vuol loro bene, anche se val la pena ricordare che non c’è tempo per approfondirli più di tanto, e le varie tappe delle loro relazioni procedono a tappe forzate. Ma va bene lo stesso: in una saga come Final Destination, sono tutti orpelli, se ci sono è meglio, se non ci sono, ci si diverte uguale.
E in Final Destination ci si diverte un mondo, a partire dalla sequenza d’apertura, che è sempre stata il termometro del successo del film. A parte The Final Destination del 2009, che è una roba brutta da qualsiasi punto di vista, tutti i Final Destination, ognuno a suo modo, sono riusciti a dare un nuovo volto alle fobie di spazi quotidiani condivisi: l’aereo, l’autostrada, il luna park, il ponte. Bloodlindes è un po’ più audace dei suoi colleghi, perché prende un’ambientazione molto caratteristica e inusuale: tutti siamo, prima o poi, saliti su un aereo o abbiamo fatto un viaggio in macchina; non è cosa da tutti i giorni salire su una torre a 100 metri dal suolo per cenare fuori, ecco. Ma, se il luogo è abbastanza atipico, la fobia dell’altezza non lo è per niente e, a parte le splatterate sparse lungo tutta la scena, è su questo che i due registi si giocano l’efficacia del loro incipit.
Nei primi quindici minuti di Bloodlines si suda freddo ogni volta che la macchina da presa inquadra il pavimento trasparente o ogni volta che qualcuno si avvicina troppo alla balconata: forse è la scena più lunga ed elaborata di tutti i Final Destination, non per la messa in scena del disastro in quanto tale, ma per la sua preparazione meticolosa. Quando finalmente il vetro si rompe e la gente comincia a precipitare nel vuoto, si tira quasi un sospiro di sollievo.
Le morti sono tutte spettacolari e gestite con cura estrema, in particolare per il fattore sorpresa: non si riesce mai a prevedere con certezza chi morirà e come, e nel momento in cui un oggetto, un complemento d’arredo, un qualsiasi elemento della scena, viene inquadrato, riesce a trasformarsi ai nostri occhi in uno strumento di morte. C’è una bella, e molto lunga, sequenza all’interno di un ospedale che è davvero un piccolo saggio di come sia possibile, un quarto di secolo dopo, riuscire ancora a mettere in crisi le nostre aspettative. Si conclude con il momento più gore di un film che non lesina mai sul sangue e sugli effettacci. Forse una minima delusione per come molti effetti nati sul set siano poi stati pesantemente rimaneggiati in post produzione c’è, ma tutto sommato non c’è l’abuso di CGI di cui ho letto in giro, anzi. Si nota un grande lavoro di trucco e protesi.
Preferisco ancora il quinto film, per quel colpo di scena finale che al cinema mi lasciò a bocca aperta, ma Bloodlines è tra i migliori della saga, un bellissimo regalo per chi l’ha sempre seguita e un ottimo modo per cominciare a seguirla se fino a ora non lo avete fatto.
Ultima postilla per l’addio di Tony Todd, che se ne va da gigante quale è sempre stato e saluta i fan con un monologo che racchiude il senso dell’intero franchise.
Grazie di esserci stato, Tony.











Una recensione bellissima come al solito, heideggeriana dire, quando Heidegger dice che “camminiamo su un abisso”. Lo vedrò senz’altro. Grazie come sempre.
Recensione bellissima e heideggeriana, direi, nel senso di quando Heidegger dice che “camminiamo su un abisso”. Lo guarderò senz’altro. Grazie come sempre.
Heidegger e Final Destination. Solo l’horror è in grado di fare questi accostamenti stupendi!
I primi quindici minuti sono davvero notevoli, mi hanno riportato all’incipit di Nave fantasma, un po’ per l’atmosfera di festa dove si consuma il massacro, un po’ per il periodo storico ripreso con i suoi costumi e musiche. Per quanto scanzonato questo Final nella scelta di mettere la famiglia (e la discendenza) come unità da proteggere e preservare gli dà un tema molto forte (poi così sentito in America e curiosamente evitato sino ad ora, o forse proprio per questo) ed è così un po’ meno facile riderne durante la visione o alleggerirsi con una risata liberatoria sebbene si continui su questa scelta di registro. Poi però il piccolo monologo di Todd con il suo viso scavato consumato ma sereno – è vero – ci dà tutto il senso del franchise, ma – ancora – per la prima volta gioca a carte scoperte come mai prima aveva voluto osare.
Quando si rimette mano a dei franchise rimasti in sospeso da parecchio tempo (quando non abbandonati del tutto), mi è molto difficile tenere a freno la diffidenza. Quello di “Bloodlines”, almeno, fa parte dei casi in cui non avevo ragione di esserlo, diffidente (un buon sesto capitolo, con il bonus di un degno e rispettoso commiato per l’indimenticabile Tony Todd 😢) 👍
Ed eccoci, dopo giusto quattordici anni di attesa. Più che comfort movies, Final Destination è una comfort saga. Sto esagerando, ma lasciamo correre. Il punto debole delle cinque iterazioni precedenti, fatte salve alcune eccezioni, erano a mio avviso i personaggi. Qui viene risolto, penso ne fossero molto consapevoli. Non riesco a decidere se la mia sequenza iniziale preferita sia questa o le montagne russe del terzo, ma in fin dei conti non importa. Uscito dalla sala, pensavo soltanto a Tony Todd metatestuale. Divertiamoci finché possiamo.
Visto la settimana scorsa con un amico. Spettacolo intrasettimanale, sala tranquilla. Ci si poteva sedere a gruppetti un po’ a distanza, comodi, senza stare in silenzio per forza e così chiacchiere, commenti, spaventi… hanno creato l’atmosfera giusta senza distrarre (era il film giusto per questo!); cibo e bevande nello zaino, la mano davanti agli occhi (io) per mezzo film, divertimento e alla fine chiacchiere sul muretto del piccolo multisala dopo la visione. Vivo il cinema come quando ero ragazzino e mi piace un casino. Ce la siamo spassata un botto e alla fine il film ci ha fatto pure scambiare riflessioni sul tema della morte. Meglio di così?
Mi spiace che più passa il tempo meno i miei coetanei si godano il cinema “di genere”, mentre io lo adoro oggi come quando ero ragazzino. Un mese fa, io e lo stesso affezionato amico, dopo aver visto Sinners in quella stessa sala, con la stessa atmosfera giusta (fantastico!), ci siamo fermati fuori a chiacchierarne con una coppia carinissima di teenager che lo hanno visto con noi. Ottimo! 🙂
un bellissimo film, ma personalmente ho sofferto un pochetto la meccanicità delle morti, e che il personaggio potesse calcolarle; sempre più meccanica ‘sta serie
però il disastro iniziale è figherrimo!