The Rule of Jenny Pen

Regia – James Ashcroft (2024)

Se avete buona memoria, saprete che noi Ashcroft lo abbiamo già incontrato con il suo primo film, Coming Home in the Dark, transitato da queste parti in una vecchia edizione delle vostre amate PIllole. Si trattava di un film piccino, anche se credo sia persino arrivato dalle nostre parti, ma se lo avete visto, difficilmente ve lo siete dimenticato.
Non so come abbia fatto Ashcroft ad assicurarsi la presenza di due colossi della recitazione come Rush e Lithgow per la sua opera seconda, ma ci è riuscito ed è tornato per farci passare a tutti la voglia di vivere a botte di pura angoscia esistenziale.
Si parla tanto di The Monkey in questi giorni come di un film nichilista che sottolinea a suon di morti assurde l’inutilità della vita. Ho cercato di illustrare che per me non è così, ma se volete vedere un film davvero nichilista, mettetevi comodi perché The Rule of Jenny Pen è esattamente quello che cercate.

In seguito a in ictus, l’anziano giudice Mortensen (Geoffrey Rush) finisce ricoverato in una casa di cura, dove incontra il sadico Crearly (John Lithgow), un paziente dell’istituto che si accanisce con i suoi compagni di sventura, li sottopone a scherzi crudeli, li tortura, psicologicamente e non solo, e sceglie il nuovo arrivato come sua prossima vittima.
Solo che il giudice è uno abituato a non farsi sottomettere e tra i due sarà guerra aperta.
La morte è un tabù che l’horror affronta spesso e volentieri. Anzi, spesso l’unico ad affrontarla in maniera diretta e non mediata è proprio l’horror. Ma lo sapete qual è il tabù che persino l’horror ha problemi ad affrontare? La vecchiaia. Se lo fa, ne mette in luce il lato grottesco e mostruoso, spesso anche usando registri vicini alla comicità; oppure ti piazza il personaggio vecchio come villain raccapricciante, proprio per evidenziare con un gigantesco pennarello la distanza tra i corpi giovani e sani dei protagonisti rispetto a quello in piena decadenza dell’antagonista. I vecchi, vedi tutto il filone hagsploitation, sono brutti e sgradevoli, disgustosi e, di conseguenza, cattivi. 

The Rule of Jenny Pen prende la questione da un punto di vista molto diverso, perché è interno. I protagonisti del film sono tutti anziani. C’è qualche persona ancora giovane, ma è sullo sfondo: medici, infermieri, personale sanitario, l’occasionale visitatore. Non sono figure che abbiano chissà quale importanza, e se influiscono in qualche modo sull’andamento della vicenda, è quasi sempre in senso peggiorativo, come la direttrice della casa di riposo che non crede  a quello che il giudice le racconta sulle angherie subite da Crearly. 
Buoni e cattivi condividono età, stato di reclusione, corpi malandati, menti che non funzionano più come dovrebbero, e tutti i disagi legati a una condizione che non è inevitabile soltanto se si ha la sfiga di crepare prima di arrivarci.
Logico che il cinema (dell’orrore e non) tocchi di rado il tema dell’invecchiamento. C’è poco da esorcizzare, in questo caso. La morte la puoi in qualche modo camuffare, abbellire, persino romanticizzare. Con la vecchiaia, puoi puntare al massimo sulla figura del nonnino amorevole. Ma non esorcizzi la paura che questa provoca nello spettatore. 
E infatti, The Rule of Jenny Pen non vuole esorcizzare un bel niente. Al contrario, ti vuole mettere di fronte al fatto incontrovertibile che, a un certo punto nel corso della tua vita, sarai ridotto a un guscio impotente, con un corpo che ha deciso di non darti più retta e un cervello che si appanna ogni giorno di più. E devi ritenerti anche fortunato, perché potevi essere già morto.

È una visione impegnativa e niente affatto leggera, anche se a volte l’interpretazione di Lithgow strappa qualche sorriso tirato per la vena di follia che l’attore infonde al suo personaggio.
Si tratta di un film che, nel suo nucleo concettuale più profondo, parla di perdita di potere e rilevanza, parla di come ciò che nella tua vita sei stato, in questo caso un giudice, non conta più niente nel momento in cui varchi una determinata soglia: non ti crederà nessuno, nessuno ti darà retta, qualsiasi autorevolezza pensavi di avere sarà cancellata, e non solo: se anche dovessi riportare una fragile vittoria su chi ha compreso il meccanismo e lo sfrutta a suo vantaggio per abusare di te, nel giro di poche settimane ti aspetta la morte. Quindi, di che vittoria esattamente parliamo?
Ed eccovi servito il nichilismo in purezza. 
Solo che The Rule of Jenny Pen non è un film malvagio. Non lo è con i suoi personaggi ai quali è sempre vicino; la regia non è quella asettica e priva di empatia che ci si aspetterebbe da un racconto del genere, non va neanche a rimestare nei dettagli più squallidi e fisicamente degradanti della vecchiaia. 
Come dicevo prima, l’angoscia è profonda, ed è di natura esistenziale perché non ci viene permesso di allontanarci dal giudice e dagli altri pazienti.

Ma in realtà, in questo modo, il colpo arriva anche più forte, perché si innesca un processo di identificazione, che non è mai pietà per questi poveri vecchi, perché anche quella presuppone una distanza di qualche tipo. Ashcroft ci inchioda alla prospettiva del giudice e da lì non c’è nessuna comoda scappatoia: come lui siamo in trappola, nel nostro corpo e nella struttura; come lui ci sentiamo impotenti di fronte ai continui soprusi e, come lui, siamo soli, perché chi dovrebbe proteggerci non lo fa. 
Lo stesso villain interpretato da Lithgow è abbastanza anomalo rispetto allo stereotipo del “vecchio di merda” laido e assassino che in tanti horror ci viene somministrato: il suo Clearly è, infatti, molto più in forma, da un punto di vista fisico, dei suoi compagni, è anche lucido, manipolatore, capace di pianificare tutta una serie di atti di una crudeltà fuori scala. Lui e la bambola, la Jenny Pen del titolo, che si porta sempre dietro e che usa per tiranneggiare sugli altri ospiti della struttura, troveranno di sicuro un posto d’onore nella galleria dei vostri incubi, perché rappresentano una forma di male che non è affatto semplice da gestire: è la prepotenza fine a se stessa, la prevaricazione per il gusto di, la selvaggia acredine dettata dal voler essere il primo tra gli ultimi. Ma dotato di quel minimo di senso dell’ironia che riesce a renderlo anche più detestabile. 

Dati l’ambientazione e il tono funereo, è abbastanza logico che The Rule of Jenny Pen non abbia un ritmo scoppiettante, anzi. È un film molto lento, che come difetto principale ha quello di piantarsi nella parte centrale e ricominciare a camminare, sempre con andatura compassata, soltanto verso la fine. Ha i suoi momenti di terrore allucinato, e riguardano tutti la maledetta bambola senza occhi di Clearly, che assume connotati demoniaci e ti spinge a domandarti se non sia lei a possedere il suo padrone, e non il contrario.
Ashcroft è bravissimo a giocare con i colori e con il fuori fuoco per portare il suo film quasi al confine con l’horror soprannaturale senza mai superare del tutto il limite.
È un film ostico e sgradevole, perché ci prende per i capelli e ci mette di fronte al nostro destino, perché descrive con minuzia di particolari cosa si prova a essere traditi da se stessi, a non avere più alcun controllo sulle circostanze. Il 2025 è pieno di horror leggeri e divertenti, per fortuna, horror che riportano il genere alla sua natura originaria di giullare dispettoso e irriverente. Ma ogni tanto ti arriva alle spalle e dispensa mazzate emotive di una certa entità.
Quindi, maneggiate con cura.

2 commenti

  1. Avatar di Edo

    Yeah, troppo d’orrore la vecchiaia. Fa il paio con la malattia: il corpo che ti lascia e neppure la mente al sicuro. Non ce l’ho fatta a guardarlo tutto.

    La gente intorno che nemmeno è malvagia, anzi, semplicemente si confronta a te con la consapevolezza di cosa vi separa.

    1. Avatar di Lucia

      Sì, ma infatti io capisco perfettamente il motivo per cui lo hai lasciato a metà. Oltretutto è anche privo di catarsi, quindi poi stai male il doppio