The Man in the White Van

Regia – Warren Skeels (2024)

L’inizio di gennaio non è mai un buon momento per l’horror, anche se è vero che quest’anno saremo benedetti da almeno un’uscita di peso la prossima settimana. Nel mentre che si aspetta L’Uomo Lupo, però, si rischia di far passare sotto silenzio un thriller bellissimo, un esordio alla regia di una brillantezza rara che, al netto di un paio di piccole storture di carattere squisitamente formale, è uno dei più interessanti omaggi a Carpenter visti di recente.
Ambientato negli anni ’70, The Man in the White Van racconta la storia di una ragazza di 16 anni perseguitata, appunto, da un individuo alla guida di un furgoncino bianco che noi sappiamo essere un serial killer già responsabile di diverse vittime negli anni precedenti a quello in cui il film si svolge, il 1975. 

Dei cartelli in testa ci avvisano che la storia prende spunto da fatti accaduti in Florida, ma la cosa non è verificata. Il regista ha affermato in una recente intervista di essersi ispirato alla reale esperienza di una donna, senza giustamente volerne rivelare l’identità.
In questo modo, The Man in the White Van rientra a stento nel filone molto fortunato e molto discutibile del true crime, tagliando oltretutto la parte discutibile con un’operazione molto simile al più famoso e istituzionale Woman of the Hour: entrambi i film adottano una narrazione non lineare per rendere il pubblico edotto delle gesta del serial killer, ed entrambi i film non gli danno troppo spazio, tenendolo sempre ai margini del racconto. The Man in the White Van è ancora più radicale perché dell’assassino si rifiuta di mostrarci anche soltanto il volto e utilizza l’espediente del furgone per dare al mostro un corpo e una forma tangibili, tanto che l’antagonista del film diventa il veicolo stesso, e non l’uomo dietro al volante. 
È un po’ come se Michael Myers guidasse il camion di Duel.

Il fulcro del film non è il killer, ma la giovane Annie (Madison Wolfe), adolescente di buona famiglia a cui piace scorrazzare il sabato in sella al suo cavallo Rebel, ascoltare southern rock, mettere in imbarazzo i genitori alle cene e fare incazzare a morte la sorella maggiore. Classica final girl di metà anni ’70, Annie possiede una fervida immaginazione che spesso la porta a ingigantire ciò che le succede e, di conseguenza, a non essere creduta. Per questo, le prime volte in cui scorge il furgone bianco che la tampina nei dintorni di casa, i genitori la prendono come una delle sue solite sparate, e persino lei dubita di se stessa e della sua percezione. 
È difficile essere piccoli e impauriti quando nessuno ti dà retta, e The Man in the White Van restituisce benissimo questa sensazione. È sì, un thriller su una ragazzina che viene presa di mira da un assassino, ma è anche un coming of age con un’ottima protagonista, in grado di recitare con un’energia grezza e vitalissima. Wolfe l’abbiamo già vista in diversi horror, The Conjuring 2 in testa a tutti, ma qui è la vera star del film. Accanto a lei, in ruoli minori, ci sono un paio di facce note, come Sean Astin e Ali Larter a impersonare mamma e papà. 

The Man in the White Van è un esordio alla regia in un lungometraggio; Skeels ha diretto qualche episodio di un paio di serie televisive e un documentario e qui lavora con un budget dichiaratamente basso, eppure nessuna delle due cose si nota più di tanto. Il film ha una messa in scena eccellente e compie un lavoro sbalorditivo sui movimenti di macchina e sulle luci. Non c’è il tentativo di emulare, da un punto di vista estetico, gli anni ’70: niente finta pellicola, niente patina sulla falsariga di Grindhouse, niente zoomate o vari vezzi stilistici tipici dell’epoca: The Man in the White Van è un’opera contemporanea in costume, girata con estreme semplicità ed efficacia e con alcuni momenti che non esito a definire splendidi. C’è, in particolare, una sequenza al tramonto durante la quale Annie resta in casa da sola col fratello minore e il furgone le si presenta nel vialetto davanti casa che fa un gran lavoro sulle luci a cavallo, o sulla golden hour, a seconda di come preferiate definire le ambientazioni crepuscolari.
Si avverte un po’ di fatica nelle scene in notturna e all’aperto, ma questo, oltre a essere un fardello che si porta dietro gran parte del cinema contemporaneo in digitale, è soprattutto un problema di budget. 

Per il resto, si vede che Skeels si è studiato l’Halloween di Carpenter a memoria, in particolare per come costruisce l’atmosfera delle settimane che precedono Halloween e per la meticolosa preparazione del confronto finale tra mostro e final girl. 
Riesce a raccontare alla perfezione il metodo con cui il serial killer segue e osserva le sue vittime senza dirti niente di lui, riesce a rendere un furgone bianco una presenza minacciosa, a fare della paranoia, della solitudine e del terrore di Annie delle sensazioni tangibili, quasi fisiche, e mantiene il suo film in un perenne stato di allerta, anche nelle sezioni più rilassate o dedicate alla vita quotidiana di Annie, alle sue schermaglie adolescenziali, ai litigi con sua sorella e alla cotta per il nuovo compagno di classe arrivato da un’altra città. Vedasi, per esempio, la scena al drive in (il film proiettato è Fright, del 1971). 

Ma dove The Man in the White Van brilla sul serio è nel saper cogliere in pieno lo spirito dell’horror anni ’70 pur rinunciando a imitarne gli aspetti esteriori o limitarsi a fare exploitation. Mi riferisco a quella sensazione di fragilità diffusa, al crollo della certezza di essere al sicuro, alla presa d’atto che il nemico non si trovava oltreoceano ma dentro casa e che aveva preso di mira proprio te, americano di classe media, la tua prole e il tuo futuro.
È una conclusione a cui l’horror giunge prima del resto del cinema, e prima che la presa di coscienza diventi collettiva: i genitori di Annie non le danno retta perché sono convinti di vivere all’interno di uno spazio protetto; una volta chiusa la porta di casa, niente e nessuno può toccarli, e anche nei luoghi normalmente frequentati dalla famiglia, è tutto noto, tutto solido, tutto a loro misura. 
Il furgone bianco è il sospetto che si insinua nella tranquillità, il mostruoso che si fa strada, in silenzio e a fari spenti, nel quotidiano. Pura psicosi da New Horror riportata fedelmente nel 2024. 
Un gioiellino. 

4 commenti

  1. Avatar di Andrea

    Buongiorno, posso chiedere dove riesci a vedere questi film che non sono disponibili in Italia? Grazie per il tuo lavoro che apprezzo molto.

    Andrea

  2. Avatar di Giuseppe
    Giuseppe · ·

    Arrivato a “è uno dei più interessanti omaggi a Carpenter visti di recente” mi avevi convinto già ma se poi, per rendere l’idea di fondo, mi evochi persino l’immagine di Michael Myers alla guida del camion di Duel, allora… Be’, ecco, allora credo di non potermelo proprio più perdere per nessun motivo 😉

    1. Avatar di Leandro
      Leandro · ·

      Lucia non sbagli un colpo !! Ho appena terminato di vedere il film dopo il tuo articolo e mi è piaciuto molto (Michael Myers che guida il camion di Duel è una sintesi meravigliosa). Diciamo che Carpenter per il regista del film rappresenta quello che i Beatles hanno significato per gli Oasis. Per essere un’ opera prima tantissimi complimenti!

  3. Avatar di L

    SPOILER Ho visto il film dopo aver letto le prime righe della tua recensione. E poi sono tornato a leggere il resto. E insomma, concordo in parte.
    L’ho trovato complessivamente gradevole, e ben girato (non sapevo del budget contenuto, si difende benissimo). Funziona bene come coming of age e, nonostante qualche stereotipo di troppo e qualche scelta un po’ naif (tipo quando ti urla in faccia “ehi il cavallo scalcia! ricordatelo!servirà nel finale”), anche come thriller, e come hai spiegato perfettamente, è perfetto nel descrivere la scoperta dell’orrore che si insinua nel quotidiano. Non so bene cosa non mi abbia convinto, forse il finale poco ispirato, con la scontatissima fuga del killer e la famiglia felice a tavola, la mamma che non è più stronza, il padre non è assente, lei è meno weird perchè ha un ragazzo, e forse perfino il cavallo non serve più, e nessuno pensa più al serial killer. Forse sono state le numerosi concessioni poco credibili e non realistiche, tipo che nessuno pensi a chiamare la polizia fino alla fine, o che il killer si rialzi e scappi dopo essere stato atterrato da un cavallo e investito da un furgone. Troppo irreale per un true crime, troppo piatto per essere interessante. Forse l’impressione è quella di aver visto un qualcosa di ben confezionato, ma completamente inconsistente.