
Regia – Natalie Erika James (2024)
Ieri non ho pubblicato niente perché mi sono presa un giorno di riposo prima di cominciare il tour the force del mese di ottobre.
Se volete conoscere le regole e i temi per la challenge creata da Marika e da me, c’è il post di presentazione; se volete partecipare non dovete fare altro che scegliere un horror al giorno da qui ad Halloween. Mi raccomando, accorrete numerosi.
Per il Day 1 il tema è Australia. Ne ho quindi approfittato per vedere il nuovo film di Natalia Erika James, che aspetto al varco dal 2020, quando ha diretto il mio horror preferito di quell’anno. Sì, James è australiana e la produzione di Apartment 7A è in parte australiana, anche se l’ambientazione è newyorkese.
A meno che non abbiate seguito la genesi del film di oggi, è probabile che nessuno vi abbia detto di cosa si tratti davvero: è il prequel di Rosemary’s Baby. C’è stata una strategia pubblicitaria autolesionista dietro ad Apartment 7A, e anche abbastanza incomprensibile: è come se da un lato volessero farvi sapere che si tratta di un prequel di quel film lì, proprio quello, non confondiamoci, per cortesia; dall’altro si fossero guardati bene dal nominarlo, quel film.
Che, se ci pensate, è assurdo: i prequel non servono ad altro se non a capitalizzare su nomi famosi e l’ambiguità non fa loro bene. Immaginate se The First Omen fosse stato lanciato senza sottolineare in ogni trailer che sì, era il prequel di The Omen.
Non so se ciò è dovuto a una scarsa fiducia da parte della Paramount nel lavoro di James, tanto da vergognarsi di fare riferimento espliciti a Rosemary’s Baby, o c’entra la caduta in disgrazia del regista di Rosemary’s Baby. Entrambe le ipotesi mi sembrano ridicole, ma valli a capire.
Apartment 7A narra la storia di Terry, la giovane donna che si toglie la vita all’inizio di Rosemary’s Baby, quindi di un personaggio del quale conosciamo già la sorte al fotogramma numero uno del film. Non è mai una buona notizia, questa, ma è la maledizione del prequel, dopotutto, e quindi tiriamo innanzi. Terry (Julia Garner) è un’ambiziosa ballerina con il sogno di sfondare a Brodway che si infortuna durante uno spettacolo e rischia di giocarsi la carriera. Disperata dopo una serie di audizioni andate malissimo, umiliata dal produttore più stronzo sulla faccia della terra (e interpretato da Jim Sturgess) e imbottita di antidolorofici, viene raccattata da due amorevoli vecchietti, i Castevet, Minnie e Roman. Attenzione che Minnie ha il volto di Dianne Wiest e noi ci inchiniamo a scatola chiusa.
I Castevet offrono a Terry un appartamento accanto al loro, il 7A, situato nel condominio noto a tutti come Bramford. Sono soli, senza figli, vogliono tanto aiutare qualcuno e lei neanche dovrà pagare l’affitto, almeno fino a quando non si rimetterà in sesto. Da lì in poi è abbastanza facile intuire cosa accadrà a Terry, anche perché il film diventa una sorta di remake non dichiarato.
Rosemary’s Baby: il musical. Questa è una bellissima intuizione da parte di James, che si vede, ce la mette tutta per dare al film un’impronta originale, se non narrativa, almeno estetica. Ci saranno almeno quattro numeri musicali in Apartment 7A, tutti giustificati dal fatto che la storia si svolge durante le prove per uno spettacolo di Broadway, ma tematicamente solidi perché il concetto di star recitando una parte, di essere diretta, di non avere un reale controllo su quello che sta accadendo, come se ci si trovasse su un palcoscenico a ripetere le battute di un copione già scritto, è un po’ il nucleo fondante dell’intero film. Purtroppo è anche quello che al film taglia le gambe: Apartment 7A è un’opera sulla quale la regista non ha il totale controllo, è un copione già scritto, è una vicenda che può prendere un’unica direzione possibile, e quindi lo spazio di manovra è terribilmente limitato.
Il problema di Apartment 7A è che funziona quando non fa Rosemary’s Baby. Intendiamoci: è sempre un film piacevole da guardare, perché ha degli attori straordinari in ogni ruolo, in particolare Garner e Wiest fanno le scintille e interpretano i rispettivi personaggi con una personalità gigantesca. In pratica, ti vendono il film da sole; James poi è impeccabile nella messa in scena, bravissima a ricreare l’atmosfera degli anni ’60 e gli interni del Bramford, e ha delle idee molto interessanti, tipo quella di raccontare la sequenza dello stupro demoniaco con il linguaggio del musical. Non è che perdete il vostro tempo se gli dedicate un centinaio di minuti, anche perché già vi vedo pronti a dedicarne 125 a Terrifier 3 senza fare un plissé.
E però quando mi trovo di fronte a questi film nati storti e sbagliati, a me dispiace sempre, soprattutto per il lavoro di tanti ottimi professionisti che finisce per perdersi nella palese inutilità del progetto.
The First Omen aveva molto più senso: certo, sapevamo che Damien sarebbe nato, ma Arkasha Stevenson non ci ha raccontato di Damien e se ne è proprio andata in un’altra direzione, rispettando comunque il punto di arrivo.
Qui non era proprio possibile compiere un’operazione dello stesso tenore.
O forse sì, forse si poteva fare qualcosa di diverso, e spesso, nel corso del film, si ha l’impressione che James ci abbia provato.
Perché Terry non è Rosemary, Terry è una giovane donna che, lo abbiamo detto prima, vuole sfondare a Broadway, e partorire il figlio di Satana potrebbe non essere poi un prezzo così alto da pagare per il successo. I momenti migliori di Apartment 7A sono quelli in cui James sembra volerci suggerire una soluzione di questo tipo per Terry, quando più che la lotta di una giovane donna contro i satanisti cattivi, il suo film somiglia alla origin story della futura madre, consenziente e consapevole, dell’Anticristo. Sarebbe stato un film bellissimo, ma non poteva esserlo, perché i binari su cui scorre la storia sono prestabiliti da un altro film, uscito nel 1968, e Terry resta soltanto quella ragazza che si è buttata dalla finestra. Lì si doveva arrivare e lì si arriva, anche se, bisogna ammetterlo, James ci arriva col botto.
Ci sono tante altre idee forti, in Apartment 7A, come quella di un gruppo di satanisti che sono di fatto indistinguibili dalla chiesa cattolica quando si tratta di libertà di scelta per le donne, o l’associazione tra mondo dello spettacolo e demoniaco che è sempre efficace e non passa mai di moda. Però è un po’ tutto buttato lì, sempre a causa della sindrome del prequel. A me sarebbe piaciuto molto che questo fosse un progetto originale di Natalie Erika James, un horror demoniaco senza alcun collegamento con film già esistenti e, soprattutto, così famosi e così pesanti nella storia del genere.
Così rischia di prendersi gli insulti da parte dei soliti, e di passare del tutto inosservato, anche perché è stato gettato senza troppe cerimonie nel cestone dello streaming in un periodo affollatissimo di nuove uscire horror.
Spero che la carriera di James non ne esca troppo danneggiata e che Julia Garner faccia tanti altri horror, perché la macchina da presa la ama ed è uno spettacolo vederla in scena.











Buongiorno Lucia,per il tema di oggi “Australia” sono stato un po’ a corto di idee,capita,cosi ho rispolverato una vecchia buzzurrata che non rivedevo da piu’ di 20 anni,”Cut Il Tagliagole”,roba sopraffina eh,pero’ tutto sommato e’ stato divertente rivederlo😜👋.
le buzzurrate sono perfette per la spooky season!
Concordo su tutto. La Garner è brava ma lo sviluppo del suo personaggio è incomprensibile, si sacrifica per salvare un mondo che non ha fatto altro che umiliarla…
Sto iniziando a pensare che l’abuso di prequel, sequel e remake sia dovuto più al tentativo di rassicurare i produttori che per far accorrere gli spettatori in sala, con la doppia fregatura per cui 1. i produttori destinano a questi film soldi che potrebbero tranquillamente essere investiti in prodotti originali, a maggior ragione perchè 2. tanto questi film non li vede nessuno a prescindere, almeno in sala.
Ho sempre più il timore che il cinema sia una forma d’arte ormai defunta, almeno nella forma in cui è esistito fino ad oggi. Non vedo all’orizzonte una new Hollywood in grado, come a fine anni 60, di ridargli nuova linfa
Io sul cinema come forma d’arte defunta non sono molto d’accordo. Però credo anche che la moda del prequel sia un po’ arrivata a tirare la corda, anche se The First Omen potrebbe dimostrare il contrario: ha incassato bene ed è un ottimo film. Però è anche un prequel anomalo. Questo avrebbe potuto essere anomalo a sua volta, ma secondo me è stato tarpato.
Quella non-strategia pubblicitaria credo abbia contribuito parecchio ad “azzopparlo” fin dall’inizio: perché non dichiarare da subito di quale caposaldo dell’horror fosse il prequel? I motivi ipotetici, lassù, sarebbero davvero ridicoli. Al sottoscritto, personalmente, la curiosità a riguardo è scattata all’istante, ma è chiaro che un buon battage pubblicitario non possa certo contare solo su questo. Poi, legittimamente, permane la perplessità circa un’operazione del genere, dove il destino della protagonista è già scritto fin dall’inizio e, a meno di non seguire la saggia strada presa da Arkasha Stevenson in The First Omen, diventa davvero difficile dire ancora qualcosa di inedito e interessante tramite un antefatto…😕
Per il tema “Australia” direi Killing Ground (2016). A me questo Appartamento è piaciuto molto, è vero si poteva provare la soluzione The First Omen ma la scelta di orientarsi su un evento appena marginale di Rosemary che diventa qui la Storia ha una suo senso, senso che si trova proprio in questa scelta forte la cui debolezza forse è non aver puntato – come dici – nel rappresentare più in profondità il conflitto (della scelta) cui si trova immersa Terry; è vero, anche temi forti (il nucleo di Immaculate, per intenderci) scivolano via troppo superficialmente, però… Però ho apprezzato molto la resa estetica della James e come il musical e le sue coreografie (insomma l’arte) arrivino a noi sino quasi a farsi indistinguibili e intercambiabili per la vita di Terry raccontando così una storia già nota ma in maniera nuova.
Ma è piaciuto anche a me, esteticamente è una bellezza e avrei voluto uscisse in sala. Mi dispiace soltanto che sia un po’ un mischione con poca identità. Perché comunque James è sempre bravissima.
Totalmente d’accordo. Il film resta piacevole, ma davvero troppo dipendente dall’originale. E si, le parti migliori sono quelle in cui smette di fare il prequel/remake e da più spazio all’ottima protagonista.
Come al solito, l’ho visto senza saperne nulla, dando fiducia alla regista (Relic era stato una sorpresa), ed è stato tutto un “mi ricorda qualcosa…”, “sembra quasi…”, “ma è troppo uguale a..”, per poi mettere insieme i pezzi solo all’inizio dei titoli di coda, sulle note della colonna sonora del film originale… 😅
Ah, aggiungerei: basta prequel, basta remake, basta tributi, omaggi, citazioni. Basta.
Ma io in realtà non ho nulla a prescindere contro remake, prequel, reboot, legacy sequel e cose così. Però non sempre riescono bene, soprattutto i prequel sono complicatissimi.
Il mio Day 1 è Little Monsters: zombi, romanticismo, ukuleli e tenerezza… wow!