
Regia – Tobe Hooper (1974)
Il cinquantenario del film di Hooper cadrebbe il 4 ottobre, ma in quei giorni saremo in piena challenge e poi hanno pensato di riportarlo nei cinema a fine settembre e, per una volta tanto, lo hanno fatto seriamente, ovvero in 4K e in lingua originale.
Nel 2024, con il funerale delle sale che viene celebrato un giorno sì e l’altro pure, sembra davvero obsoleto dire che i film vanno visti in sala per apprezzarli sul serio. La fruizione casalinga è sempre un ripiego; può essere un ottimo ripiego, ma tale resta, e vi parlo da persona che, gran parte della propria cultura cinematografica se le è costruita in VHS e poi in DVD.
Cosa c’entra con Non Aprite quella Porta?
Centra perché io, per il festeggiato di oggi non ho mai sviluppato un grande attaccamento emotivo. È un film che ho visto svariate volte, sempre sul piccolo schermo della mia cameretta e in diversi formati, del quale ho sempre riconosciuto l’enorme importanza storica, ma non è mai stato Scream o Nightmare (sì, ho rivisto anche quello al cinema, sì, lo festeggiamo a novembre), e neanche Halloween, se è per questo. C’è una distinzione da fare tra i film che rispetti e quelli che, invece, ami.
E io Non Aprite quella Porta non l’ho mai amato.
Poi l’ho visto al cinema.
Non dico sia una cosa valida per ogni singolo film, ma per The Texas Chain Saw (staccato) Massacre il buio, lo schermo grande, la visione collettiva hanno avuto su di me l’effetto di uno schiacciasassi che ti passa sopra e ti lascia spappolato sull’asfalto rovente del Texas ad agosto.
Se nel 1974, Non Aprite quella Porta è la tempesta perfetta, arriva al momento giusto, cattura il clima culturale come pochi altri film al mondo, nel 2024 è una lezione di cinema.
Credo di essere l’ultima persona al mondo passibile di accuse di temperamento nostalgico, quindi ciò che sto per dire non ha nulla a che vedere con il mio giudizio critico sul cinema horror contemporaneo, che sapete bene quanto io apprezzi e difenda da anni: siamo tutti addomesticati. Nove film su dieci, anche quelli che si fregiano di essere estremi, ultraviolenti, feroci, sono dei cuccioli indifesi in confronto a quello che è riuscito a fare Hooper in 83 minuti di follia. È purtroppo un dato di fatto incontrovertibile e non possiamo farci niente: il cinema è cambiato, ha preso una direzione precisa, l’estetica del XXI secolo è quella che abbiamo. Non è neppure una critica, la mia, è una presa d’atto.
Poi ti siedi in un cinema a vedere un film di cinquant’anni fa, sei circondata da ragazzini, già ti aspetti di dover passare l’intera visione a combattere con schiamazzi, chiacchiericcio continuo, cellulari, e invece no. Invece Non Aprite quella Porta li ammutolisce.
Sin dalle prime inquadrature hai la sensazione, chiara, netta, inequivocabile, di avere davanti un film pronto a morderti. Non è spettacolo, non è intrattenimento, non è neanche un’opera d’autore pregna di significati e con diversi livelli di interpretazione: è una bestia feroce che ti vuole mangiare. Poi sì, i significati ci sono, i livelli e gli strati anche, ma non è quello il cardine della questione, a mio avviso. Non dopo mezzo secolo in cui il film è stato analizzato, rivoltato, imitato, parodizzato, citato in ogni angolo del mondo. Di Non Aprite quella Porta sappiamo ogni cosa e conosciamo a memoria ogni risvolto, tanto che parlarne ancora sembra persino superfluo.
E tuttavia non lo è, non dopo l’esperienza di ieri sera (per voi che leggete, l’altro ieri), quando un film che in teoria sai a memoria, ti riduce a un cumulo di brividi e a una palla raggomitolata di terrore.
Siamo consapevoli delle circostanze in cui il film è stato girato, al limite della sussistenza, con troupe e cast macerati dal caldo, una tensione insopportabile sul set e gli abiti di scena che tra un po’ stavano in piedi da soli. Di sicuro la situazione non proprio rilassata delle riprese ha aiutato a definire quell’impressione di assoluta realtà fornita dal film, ma non basta. È intenzionale. Hooper sapeva esattamente cosa stava facendo.
Quando, nel 1972, Craven ha diretto L’Ultima Casa a Sinistra, era arrabbiato, e la sua rabbia è stata trasferita su pellicola per poi arrivare a noi. Ma, a parte la rabbia, lui non sapeva cosa stava facendo, non aveva ancora gli strumenti, non aveva ancora appreso il linguaggio. Per Hooper la faccenda è diversa. Non Aprite quella Porta non è uscito fuori per caso, è uscito fuori perché il suo regista voleva mettere gli spettatori in una condizione di panico costante; l’esordio di Craven brilla per assenza di stile, perché nessuno possedeva neppure la nozione di dove piazzare la macchina da presa; Hooper uno stile, ce l’ha, i movimenti di macchina sono studiati, millimetrici, la disposizione degli attori e degli oggetti in campo e la prospettiva da cui li si guarda agire è frutto di una meticolosa preparazione: il campo lungo di Faccia di Cuoio alla finestra dopo aver ucciso Jerry, i dettagli sugli occhi e il volto terrorizzato di Sally legata al tavolo della cena o, per essere il più banale possibile, il modo in cui Faccia di Cuoio viene presentato al pubblico; non sono momenti dettati dall’istinto, ma richiedono un controllo ferreo sulla materia, una conoscenza approfondita dei meccanismi linguistici a disposizione all’epoca, e di più: la consapevolezza di starne creando di nuovi.
Non è un film rozzo, Non Aprite quella Porta: è feroce e indomabile, ma a suo modo, ricercato. Lo è, per esempio, nell’uso del sonoro, con gli ultimi venti minuti o giù di lì che sono una cacofonia isterica di urla e risa sguaiate che ti gratta i nervi, lo è nell’uso del registro comico-grottesco e nella sua estetica del brutto, contrapposta alla bellezza di alcuni paesaggi, di alcune inquadrature volutamente liriche che accentuano lo spaesamento e l’insicurezza dello spettatore, messo in uno stato tale da non sapere mai cosa sta per arrivare. Ti immerge in un mondo fatto di sporcizia, puzza, decadimento; ti fa sentire un animale al macello. Non è un caso che Hooper, poco dopo il film, abbia smesso di mangiare carne. Il parallelo tra le mucche e i protagonisti è talmente evidente, talmente urlato che, se il film fosse uscito oggi, lo si accuserebbe della temibilissima “propaganda vegana”.
Penso non esista un altro film capace di portarti a uno stadio così primordiale: un fascio di carne che lotta per sopravvivere.
Ed è il motivo per cui Non Aprite quella Porta non è, non è mai stato, mai sarà uno slasher.
Non esiste nulla di più spaventoso dell’apatia di fronte alla vita altrui, sia essa umana o animale, non ha importanza. La famiglia di Leatherface ci mette a disagio e ci terrorizza perché per loro la vita non possiede alcun valore; non sono neanche sadici come invece appaiono nel remake del 2003 o come sono sadici moltissimi killer dello slasher: sono soltanto indifferenti, e per loro dispensare dolore non ha alcun peso, alcuna importanza.
È spaventoso sì, ma è anche un’esperienza molto comune nella nostra esistenza quotidiana, e da entrambe le parti della barricata: Franklin divora una salsiccia prima di finire a sua volta sotto le lame della motosega di Faccia di Cuoio.
Per usare le parole di Tobe Hooper, The Texas Chain Saw Massacre “it’s about the chain of life and killing sentient beings”.
L’horror si era già avvicinato a questo concetto, ma nel 1974 non lo aveva ancora mai davvero esplorato. Ancora oggi, mezzo secolo dopo, pochi film sono riusciti a coglierne l’essenza come Non Aprite quella Porta. Nonostante il torture porn, nonostante lo slasher e nonostante legioni interi di assassini psicopatici e cannibali. Non con questa precisione, con questa linearità, con questa apparente semplicità.
Ed è per questo che i film invecchiano, ma questo pare girato domani.












Deve essere stata una esperienza traumatizzante, mi ha ucciso il solo vederlo in tv una volta, ma avrei voluto andare a vederlo anche io, la Cineteca di Bologna (sempre sia lodata) purtroppo aveva orari impossibili…
Ti giuro, la rifarei oggi stesso, se potessi.
Oramai la tecnologia permette anche da casa una visione molto vicina a quella di molte sale cinematografiche ma, hai ragione da vendere, quando affermi che la fruizione in sala intesa come luogo fisico di fruizione condivisa è qualcosa di non replicabile; una specificità che arricchisce e ridefinisce la visione di tanti lavori. Io non dimenticherò mai la faccia di Oliviero Beha (casualmente seduto accanto a me) dopo i titoli di coda di Festen; sebbene ignoto a me stesso in quel suo sguardo smarrito e sgomento mi sono riconosciuto, anch’io come lui spettatore e attore di un rito pagano del quale ci aveva reso partecipi protagonisti quel farabutto Vinterberg.
Posso ben comprendere i ragazzini con te in sala: ho visto Non aprite quella porta per la prima volta a tredici anni, ovviamente in dvd. Ancora oggi associo al film gli stessi momenti che mi colpirono durante quella prima visione. Non tanto le morti, non tanto l’allegra tavolata della famiglia Sawyer (che pure…) ma la prima apparizione di Leatherface (stabilisce il tono del film, e lo fa in due secondi – molta consapevolezza, sì) e la folle danza finale dello stesso Leatherface, con il riflesso del sole al tramonto sulla lama della motosega. Se qualcuno me lo chiedesse, indicherei questa immagine come riassunto del film. Non aprite quella porta non è stato solo la cosa giusta al momento giusto, altrimenti sarebbe invecchiato. Di quel clima culturale è un’emanazione diretta, ma da quel periodo si distacca per diventare universale. Si dice che le opere, di qualsiasi tipo, capaci di mostrare meglio la caducità dell’uomo siano quelle destinate a rimanere. Bene, una rappresentazione più diretta e spietata – forse l’aggettivo più calzante – fatico davvero a immaginarla. Noi, come la protagonista, non possiamo che rimanerne annichiliti. Ecco perché non invecchia, e perché i seguiti (alcuni apprezzabili, altri meno) non si sono mai avvicinati al primo. Anche perché nel frattempo la sensibilità è cambiata. E allora: Non aprite quella porta emblema dell’horror degli anni Settanta? Forse mi spingo troppo oltre, ma di sicuro uno dei più rappresentativi.
Ma io credo che questo sia davvero il simbolo del new horror. E, ribadisco, ci sono film che amo di più, anche dello stesso periodo. Ma non è neanche un fatto di essere affezionata più o meno a un film, Non aprite quella porta va oltre le preferenze.
Un film che fra altri 50 anni sarà ancora lì, pronto a spaventare ed ammaliare altri fan
Detto in sintesi e in soldoni, quella del giovane Craven era anarchia laddove invece quella del giovane Hooper era strategia. Una strategia i cui risultati si vedono ancora egregiamente dopo cinquant’anni (e su grande schermo ti colpiscono certo ancora più che sul piccolo), ai cui livelli iin seguito lui non sarebbe riuscito a tornare, come se avesse gIà dato tutto sé stesso in questo storico titolo spartiacque per il cinema horror…
Si scappa da questo film, rimane addosso come un trauma, una ferita: amarlo è proprio difficile per me, mi fa stare male. Un malessere che non ha medicine e che quindi preferisco evitare. Non aprite quella porta è troppo “definitivo” e forse addirittura troppo “umano” nel mostrare quello che possiamo essere in presenza (o assenza) di certe condizioni (economiche, culturali, sociali, relazionali, educative…). Riguardandolo di recente, mi ha fatto pensare anche (a) questo. Non ci si aggrappa da nessuna parte, al massimo si finisce attaccati ad un gancio (emozionale) o, se proprio proprio siamo fortunati, si scappa disperati, traumatizzati, coperti di sangue.
La sopravvissuta che si allontana sfigurata dal terrore… sono io.