In a Violent Nature

Regia – Chris Nash (2024)

Ne parlavo qualche giorno fa con la mia amica Ilaria Franciotti, mentre ero ospite del suo podcast dedicato allo slasher (Ilaria in Wonderland): lo slasher è sopravvissuto fino ai giorni nostri perché ha sempre saputo rinnovarsi, mantenendo tuttavia intatta la propria natura più profonda. Insomma, è riuscito a non cambiare niente cambiando tutto. Nel 2024, mezzo secolo esatto dopo Black Christmas, e a più di sessant’anni di stanza da Psycho, l’esordio del artista di make-up ed effetti speciali Chris Nash è lì a dimostrarci, ancora una volta, che lo slasher è qui per restare e non ha alcuna intenzione di sentirsi vecchio, obsoleto o superato.
In a Violent Nature è un esperimento meta cinematografico tanto interessante quanto ostico: è l’Elephant del cinema horror, la versione Dogma di Venerdì 13, ma è anche un videogioco in terza persona giocato dall’assassino. 
Alla fine, non c’è bisogno davvero di reinventare un genere o di stravolgerne le convenzioni. È solo e sempre una questione di punti di vista. 

La storia del film la conosciamo già a memoria: un gruppo di sprovveduti campeggiatori compie un’azione sconsiderata e riporta in vita un energumeno sfigurato di nome Johnny che li farà fuori uno a uno. La differenza sta nel fatto che (quasi) tutta la vicenda è narrata dalla prospettiva dell’assassino; il risultato è che assistiamo per una novantina di minuti a questo bamboccione simil Jason che cammina nei boschi e, ogni tanto, ammazza malissimo qualcuno. Il tutto senza musica se non diegetica, a luce naturale e con un ritmo letargico spezzato soltanto da alcune esplosioni di gore estremo ed efficacissimo. Un omicidio, in particolare, manda a casa Art il Clown e tutti i suoi risolini sadici. Violento e disgustoso senza tuttavia scadere nell’autocompiacimento.
In a Violent Nature può annoiare e può spingere lo spettatore a chiedersi quale sia il punto della questione. Non c’è una trama propriamente detta, non ci sono personaggi, non c’è niente se non l’incedere letale e silenzioso di Johnny. Non siamo coinvolti, siamo affascinati; non c’è tensione perché, in fin dei conti, della sorte dei campeggiatori non ci interessa e non è realizzato in maniera tale da farci provare un qualche tipo di identificazione in Johnny. Non è un film dalla parte del mostro; è un film che ti descrive, nel modo più naturalista possibile, la giornata tipo di un mostro. 

Comprendo che abbia diviso pubblico e critica tra entusiasti e delusi. Come dicevo prima, è un’opera sperimentale che del proprio sperimentalismo fa continua ostentazione; o vi fare risucchiare subito dal viaggio di Johnny oppure reggete una ventina di minuti e tirate una ciabatta contro lo schermo. Se in uno slasher tradizionale, i riempitivi tra un omicidio e l’altro servono a dare, nel migliore dei casi, un po’ di spessore alle vittime, qui ciò non accade, e neppure viene dato spessore a Johnny, che è appunto una forza della natura, o un suo rappresentate, a seconda di quanto vi sentiate in vena di metafore. 
Che poi, non c’è da ricercarla troppo, la metafora: comincia con l’intrusione dei ragazzotti in un luogo sacro, dal quale sottraggono qualcosa che non appartiene a loro; prosegue con un repellente cacciatore che dissemina di trappole il bosco e, da legge del contrappasso, finisce in una delle sue tagliole, e ha come elemento stilistico dominante il contrasto sonoro tra la confusione dei campeggiatori e il silenzio contemplativo delle camminate di Johnny. Difficile essere più chiari di così. E, nel caso non avessimo capito, Nash ci mette anche la didascalia finale (ci torniamo in sezione spoiler). Ma poi, basta il titolo per capire dove vada a parare e quale sia il punto della questione, no?

Dal lato strettamente tecnico, In a Violent Nature è un piccolo miracolo. Girato con un budget microscopico, bruciato quasi tutto in effetti speciali e gore, può vantare alcune delle soluzioni e invenzioni visive e sonore migliori dell’anno. La bellezza delle location (Ontario, Canada) fa da sola un sacco di lavoro, ma è soprattutto il modo in cui Nash integra Johnny nel paesaggio a essere originale: non è messo in scena come un elemento estraneo, ma è parte integrante dei boschi come potrebbe esserlo un orso. E forse questo è il vero stravolgimento dello schema classico dello slasher: Johnny non è un intruso; non lo è uno squalo bianco nell’oceano, non lo è il nostro bamboccione nella selva. Se lo slasher classico ci parla di ambienti familiari sotto attacco da una minaccia abietta, In a Violent Nature presenta i campeggiatori come abietti, e non perché siano più o meno sgradevoli rispetto ai protagonisti di un Venerdì 13 a caso, ma perché non sono parte del paesaggio, non sono integrati all’ambiente, sono corpi estranei e, in quanto tali, vanno sradicati: “They just keep killing, for no reason. Animals don‘t get too hung up on reason.” 
E invece la ragione c’è: siamo solo troppo concentrati su noi stessi per vederla. 

L’altro reparto in cui il film eccelle è il sound design. Con dialoghi ridotti ai minimi termini e musica assente, i suoni hanno sulle spalle tutto il peso di creare l’atmosfera: passi, fruscii del vento, foglie smosse, armi da taglio di varia natura che entrano nella carne delle vittime, ossa che si rompono, il motore di una macchina per tagliare il legno che mi perseguiterà per il resto dei miei giorni, la contrapposizione tra tutto ciò che è artificiale e creato dall’uomo e i rumori naturali; c’è un lavoro enorme dietro al film, nonché terribilmente minuzioso per immergere lo spettatore nel mondo di Johnny. Se il film non è girato in soggettiva, ma in terza persona, il sonoro è la vera soggettiva dell’assassino. Ho trovato questa scelta perfetta. 
E ora, facciamo un po’ di spoiler sul finale, quindi non continuate a leggere se non avete ancora visto il film.

È un luogo comunque piuttosto diffuso quello secondo cui, in uno slasher, l’elemento interessante sia l’assassino, mentre tutto il resto sia irrilevante. In A Violent Nature, proprio per la sua essenza meta cinematografica, sembra indulgere in questo luogo comune, sembra promuoverlo, ponendo al centro della narrazione (che narrazione non è) il nostro gigante non morto e muto Johnny. Lo fa compiendo, per restare coerente e fedele a se stesso, delle evoluzioni con la macchina da presa complicatissime; lo fa a costo di risultare noioso e inconcludente; lo fa fino a un quarto d’ora dalla fine, quando il punto di vista cambia e diventa non più quello di Johnny, ma della final girl Kris.
In molti hanno detto che il film funziona fin lì, e poi crolla, che senza quei 15 minuti dedicati a Kris, In a Violent Nature sarebbe stato perfetto. 
Io non credo affatto che l’esordio di Nash sia perfetto, ma credo che la forza del film stia proprio nel ribaltamento finale. Perché succede una cosa: si comincia ad avere paura. 

La nostra Kris riesce a sfuggire a Johnny, a uscire dal bosco e ad arrivare su una strada asfaltata, dove viene raccolta da una donna alla guida di un furgoncino. Ecco, io ho assistito a tutta la sequenza in cui Kris viaggia a bordo dell’auto in apnea, coprendomi gli occhi, rannicchiata sul divano in preda al panico. E non succede assolutamente niente, tranne il fatto che, avendo visto Johnny all’opera e non potendoci più permettere il lusso del distacco, ora avvertiamo una tensione prima assente. 
Perché non è l’assassino la parte interessante di uno slasher, è la nostra relazione con l’assassino. La parte finale serve, appunto, a smentire la tesi che il film sembra portare avanti, dà il senso ultimo all’operazione che, priva del momento in cui il nostro sguardo passa da killer a potenziale vittima, sarebbe stata soltanto uno sterile esercizio in gore, squartamenti e uccellini che cantano. O peggio, la desolata resa di un genere intero. 
È solo e sempre una questione di punti di vista. 

13 commenti

  1. Avatar di Jason13
    Jason13 · ·

    Ciao Lucia. In questo periodo stai recensendo film che mi incuriosiscono tanto (vedi lo slasher in oggetto o I saw the TV glow) e che spero possano trovare – anche solo in home video o in streaming – una distribuzione italiana. Grazie, e soprattutto grazie per avermi fatto scoprire un nuovo podcast dedicato al cinema horror di cui fino ad oggi ignoravo l’esistenza (e che servirà in parte ad alleviare l’astinenza dovuta alla prolungata assenza di Paura e Delirio).

    1. Avatar di Lucia

      Ciao! Sulla distribuzione italiana, l’unica nostra speranza è un arrivo il più possibile repentino sulle piattaforme varie. Magari la Midnight Factory li porterà da noi. Sono contenta che il podcast di Ilaria ti piaccia. Dovrebbe uscire a breve la mia puntata, anche.

  2. Avatar di Edo

    Bello. Condivido sul finale, amato lo sguardo della ragazza, e il levarsi dai piedi. E poi la paura, anche della signora in macchina ora. Da quel bosco lo vedremo spuntare? Non è possibile. Ma se….

    E anche l’implicita obiezione in questi film su cosa fa il killer tra un momento e l’altro, cosa aspetta, perchè da tempo alla gente di riprendersi, scappare. Qui spesso semplicemente cammina; ci vuole tempo per fare quelle che deve.

    Sparsi: il non voler far immedesimare con il kiler trovo lo mettano del tutto in chiaro con le chiavi e la macchinina. Tutto quel silenzio rende effettivamente molto più doloroso di quel che potrebbe sembrare la scena della spezzalegna. Hunter hunter aveva usato in modo simile il silenzio.

    1. Avatar di Lucia

      Io credo che senza quel finale, il film non avrebbe avuto proprio senso. Sarebbe stato soltanto un esercizio di stile vuoto e sadico. Invece così ribalta davvero la prospettiva, anche a costo di giocarsi la coerenza. È coraggioso.

  3. Avatar di loscalzo1979

    Spoiler a parte, me lo recupero… Curiosità: secondo te, il protagonista è materiale per diventare un Franchise?

    1. Avatar di Lucia

      Questo non lo so, perché non so quanto senso avrebbe un franchise con questo stile. Il personaggio ha un look da icona, questo sì, però boh. Inserito in un contesto normale, sarebbe l’ennesimo clone di Jason.

  4. Avatar di Giuseppe
    Giuseppe · ·

    Ero piuttosto dubbioso nei confronti di questo titolo, lo ammetto, ma dalla tua recensione sono emersi degli aspetti interessanti che mi spingono a dargli una possibilità…

  5. Avatar di Elfo Scuro
    Elfo Scuro · ·

    adoro questo approccio, minimalismo sperimentale verso un genere cinematografico. Il monologo sull’orso nel finale è davvero messo con intelligenza, vera tensione.

  6. Avatar di alessio

    Hai ragione, gli ultimi quindici minuti sono di un’ansia insostenibile e i suoni diegetici che avevano accompagnato il film non appaiono più come (stupenda) voce di una natura indifferente all’uomo ma sembrano farsi colonna sonora per introdurre una minaccia incombente.

    1. Avatar di Lucia

      Non mi ricordo un horror recente in cui ho avuto così tanta ansia come negli ultimi 15 minuti di questo. Un incubo. E non capisco, davvero, chi ha detto che il film lì crolla.

  7. Avatar di L

    Tutto vero, soprattutto sul finale. È paradossalmente la parte migliore, o perlomeno che da un senso al film. A me, che non amo gli slasher e cerco “le storie” , non è bastato per farmelo piacere, ma si tratta di gusti. Mi ha portato però a farmi delle domande, che giro a te. Sarebbe possibile un’evoluzione, per un sottogenere che negli anni ha avuto pochissime varazione? In che direzione dovrebbe andare, fosse per te? Ce ne sarebbe bisogno?

    1. Avatar di Lucia

      Ma secondo me lo slasher l’evoluzione l’ha già avuta, negli anni ’90 con Scream che un’altra cosa rispetto agli slasher degli anni ’80, ma già nel 1984 con Nightmare.
      E poi abbiamo avuto, di recente, quel mezzo miracolo della trilogia di Fear Street che porta lo slasher dritto nel XXI secolo scardinando tutto.

      1. Avatar di L

        I Fear Street mi erano piaciuti abbastanza, non li ricordo come rivoluzionari onestamente ma ne ho un ricordo vago, per cui mi fido…
        Ok Scream, però dagli anni 90 sono passati 30 anni, e il cinema è cambiato e si è evoluto svariate volte… A prescindere dai gusti, ha ancora senso vedere un ora e mezza di teenager/collegiali con zero caratterizzazione rinchiusi in una baita/nel campus che vengono regolarmente fatti a pezzi dal tizio con maschera di turno? Ad esempio, tempo fa era uscito un film (non ricordo il titolo) in cui al solito meccanismo survivor (c’era gente lasciata nel bosco e braccata da vari psicopatici mascherati) si aggiungeva il legame di “gioco” tra le vittime e il killer che gli era stato assegnato, che costringeva i due a collaborare. Nulla di rivoluzionario, ok, e sfruttato solo in parte, ma rendeva interessante un film altrimenti assolutamente mediocre. Tutto questo per dire che secondo me troppo spesso lo slasher è usato come scusa per non doverci mettere creatività, e sarebbe ora di affrontarlo con maggiore dignità.