
Finita l’ubriacatura della challenge di Halloween, torniamo a una parvenza di normalità parlando dell’ultima fatica di Mike Flanagan (a proposito, la terza stagione di Nuovi Incubi è una monografia tutta su di lui); arrivo in ritardo, perché già l’avete vista e già ne avete discusso ampiamente in lungo e in largo, quindi sarà difficile dire qualcosa che non sia una ripetizione di quanto già detto da altre persone, pure più preparate e in gamba di me.
Tuttavia, Flanagan è il più importante autore horror contemporaneo e non si può non analizzare ogni sua opera, soprattutto in questo caso.
Il fatto che sia già considerata “cosa vecchia” mi facilita in parte il lavoro, perché devo spiegare pochissimo: come era già accaduto con Hill House e Bly Manor, Flanagan prende un classicone della narrativa gotica e lo trasforma. Nei due casi precedenti c’erano dei romanzi da rielaborare, qui il regista e sceneggiatore ha a disposizione un corpus di racconti. Di conseguenza, la struttura della serie ricorda moltissimo i vecchi film della Amicus, quelli a episodi con cornice. Qui la cornice è il racconto che dà il titolo alla serie e ogni puntata è l’adattamento di un differente racconto. Si ritrovano poi, sparse in giro, diversi citazioni e ammiccamenti all’opera di Poe. Ecco, ora che abbiamo sbrigato le formalità, andiamo al sodo.
Ho una confessione da fare: questa volta ero preoccupata e anche un po’ prevenuta; la produzione di Casa Usher è stata complicata, tra l’incresciosa vicenda di Langella e la chiusura del contratto di Flanagan con Netflix; inoltre, la formula brevettata con Hill House poteva essere logora, arrivati alla terza serie tv; c’è poi un discorso relativo alla natura specifica di Poe che non lascia molto spazio al tipo di narrazione, tutta sentimentale e umana, tipica di Flanagan. Insomma, se Flanagan è adattissimo per portare sullo schermo King, è riuscito a cogliere in pieno l’essenza di Hill House e con Henry James ha pure avuto gioco facile perché Il Giro di Vite è tagliato su misura per lui, con Poe avevo un paio di perplessità, pure per il differente peso culturale che ha Poe rispetto a James e a Jackson. Poe si studia a scuola persino qui in Italia. Più di tutto il resto, temevo che Flanagan avrebbe finito per fare sempre la stessa cosa.
Sono stata clamorosamente smentita.
Dimenticate la commozione, la malinconia, i personaggi che ti entrano nel cuore e si piazzano lì per il resto della tua vita senza neanche pagare l’affitto; dimenticate quei momenti strazianti che ti lasciano agonizzate sul divano col moccio al naso e un tremendo mal di testa da pianto. Questa volta, Flanagan è spietato, è cattivo, svuotato dal sentimentalismo e carico di un feroce e nerissimo senso dell’umorismo. Che Casa Usher sia un’opera di Flanagan lo si evince dai temi ricorrenti (la famiglia, i rapporti tra fratelli, la queerness, i traumi dell’infanzia che tornano a mordere nell’età adulta) e dalle caratteristiche tipiche del suo stile di regia e scrittura. Ma è tutto reso in chiave satirica, perché gli Usher sono una ricchissima famiglia di stronzi per i quali non c’è alcuna pietà, che non provano amore reciproco, ma sono soltanto e sempre pronti e pugnalarsi alle spalle a vicenda, e le loro morti, annunciate sin dalla prima scena del primo episodio, sembrano tutte il giusto contrappasso per una vita vissuta all’insegna dell’amoralità e del privilegio.
Anche in questo, la serie è molto simile agli episodici della Amicus o ai vecchi fumetti di Tales from the Crypt cui quei film erano ispirati: umorismo macabro, scherzi crudeli ai danni di persone orribili, morti che rappresentano il riflesso distorto dei peccati commessi. C’è una sardonica leggerezza nel mettere in scena queste dipartite, un sadico divertimento, come se Flanagan finalmente potesse essere un bambino cattivo, un giullare anarchico che si prende gioco nel peggiore dei modi dei suoi stessi padroni. Un Hop-Frog con la macchina da presa che saluta Netflix con un’ultima burla.
Il cambio di registro si accompagna anche a una maggiore aggressività sul versante horror: Casa Usher fa meno paura di Hill House, ma solo perché non essendo in pena per i suoi protagonisti, ci si spaventa di meno, ma è sicuramente più violenta di tutto ciò che Flanagan ha fatto in passato. Più splatter, anche: basta vedere il finale del secondo episodio, quello tratto da La Maschera dalla Morte Rossa, per rendersi conto che questa volta non ci verrà risparmiato niente, nel corso di questo viaggio ai confini dell’umana abiezione.
Eppure, a ben guardare, esiste un doppio fondo nascosto dietro questo perfido gioiello che funge da commiato con il pubblico di Netflix: Casa Usher racconta di un’azione predatoria delle generazioni precedenti su quelle successive, di una ricchezza costruita non badando alle conseguenze. In parte è il solito adagio delle colpe dei padri che ricadono sui figli, e anche questo è perfettamente in linea con la poetica di Flanagan dai tempi di Oculus, in parte è un qualcosa di ancora più sgradevole, di più viscido e legato a doppio filo al capitalismo odierno. La famiglia Usher ha edificato la propria fortuna barattando la vita dei propri discendenti, nati quindi già con il destino segnato. Sia i figli legittimi di Roderick Usher, sia quelli che i fratelli definiscono con enorme gentilezza i “bastardi”, sono cresciuti in un tragico vuoto affettivo che li ha trasformati i mostri. Ma come potrebbe essere altrimenti? Sono vittime sacrificali e niente altro. Strumenti di accumulo di denaro, non persone, ma animali da macello.
La morte o il diavolo o qualunque essere soprannaturale sia l’entità incarnata da Carla Gugino, non può fare distinzioni tra innocenti e colpevoli, tra chi ha appena cominciato il suo percorso sulla terra e chi, al contrario, ha già fatto più danni delle cavallette. Lei si limita a riscuotere un tributo e lo fa con l’incedere implacabile delle maledizioni. Per questo, la serie non ha pietà dei figli Usher: la loro esistenza è accidentale, il loro essere in vita e respirare, una breve concessione.
E così, alla fine, pure quando Flanagan si presenta freddo, chirurgico e crudele come un anfitrione dei fumetti della EC, riesce ad andare oltre la mera mostra delle atrocità e a fare un discorso coerente con il suo modo di narrare e di tradurre in immagini le storie. Perché, come ci insegna Oliva Crain: non siamo niente altro che storie. Figli di ulteriori storie, aggiungo io, ma credo Flanagan sarebbe d’accordo. Con un impatto sulla nostra, di storia.
La storia di Roderick e Madeline Usher (più Roderick, a dire la verità; Madeline di figli non ne ha avuti, e consapevolmente) ha determinato le storie dei loro discendenti, ne ha forgiato il carattere, li ha resi ciò che sono; ha tolto loro ogni possibilità in partenza. Se si può provare pietà per i ragazzi Usher è per ciò che avrebbero potuto essere senza questo peso addosso.
Abbiamo detto prima che da un punto di vista stilistico, Casa Usher mantiene tutti i tratti tipici della messa in scena di Flanagan. Ma se in Midnight Mass si poteva riscontrare una certa austerità, qui torniamo alla messa in scena barocca e funambolica di Hill House. Flanagan dirige solo quattro episodi su otto, mentre i restanti sono firmati dal suo direttore della fotografia, Michael Fimognari (aveva anche diretto due episodi di The Midnight Club l’anno scorso), ma proprio per questo è ovvio che l’impronta estetica della serie sia molto omogenea e che si sia optato per uno spettacolo pirotecnico, caratterizzato da colori accesi, movimenti di macchina articolati, scelte sempre molto nette e fortemente riconoscibili. Non va per il sottile, Casa Usher, quello che ti deve dire, te lo grida in faccia e, anche qui, il paragone con il mondo del fumetto horror è scontato.
Gli attori sono i soliti della Flanagan Family, con i nuovi e graditissimi acquisti di Willa Fitzgerald, Mary McDonnel e un gradissimo Mark Hamill che fa Arthur Gordon Pym. Sono tutti in parte, tutti eccellenti, ma chi mi ha proprio sbalordita è stato Henry Thomas, cui spetta il ruolo più sgradevole dell’intera compagine dei figli Usher.
Ora, sarà interessante vedere cosa combinerà Flanagan una volta esaurita la sua collaborazione quinquennale con Netflix, ma un regista che è in grado di sorprendere e spiazzare in questo modo, può fare della propria carriera ciò che desidera. Grazie, ancora una volta, Mike.











Ciao Lucia! Aspettavo la tua recensione di questa serie. Come sempre ottima! Penso di essere d’accordo su tutto, anche se devo dire che a me il finale ha comunque fatto scendere qualche lacrima. Carla Gugino è semplicemente favolosa! Flanagan forever!
Io qualche lacrima l’ho versata per Annabelle Lee e per Lenora. Perché poi alla fine Flanagan mi frega sempre, il maledetto
Uguale (con il carico extra di vedere la morte così raggiante per il futuro messo in moto da Lenore)
Pure la scena del funerale dei due figli legittimi con il fantasma di Annabelle Lee è abbastanza straziante
Davvero.
Tieni sempre conto dei ritardatari cronici come il sottoscritto: io infatti non l’avevo ancora vista, e con questa tua recensione direi che me l’hai venduta in pieno 😉👍
E Dio benedica i ritardatari perché fanno vivere le storie più a lungo
Nel nostro piccolo, anche noi siamo indispensabil 😉
La tua recensione finalmente rende giustizia a questa serie, che in molte (troppe) recensioni “blasonate” è stata maltrattata!
“Ritardatari”? Io non sapevo nemmeno che la serie esistesse quindi… ho scoperto tutto qui e devo ringraziare questo blog!
Mi tenta molto (adoro Flanagan che “spammo” a chiunque… ho letto Poe da ragazzino… ho visto i vecchi film con Vincent Price…), ma per ora passo: sono di quelli che ha sempre più bisogno di “commozione… e personaggi che entrano nel cuore”. E poi mi mancano ancora Hill House e Bly Manor…
Ma al momento giusto…
Besos!
Anche a noi sta piacendo molto. Siamo arrivati alla sesta puntata e, benché, come sottolinei tu, sia meno sentimentale del solito Flanagan (caratteristica che noi amiamo!), non delude affatto perché tutto il suo stile e la costruzione dei suoi personaggi sono riconoscibilissimi!
Adesso che ne hai scritto mi toccherà vederlo. Adoro Flanagan, ma anche Poe e non ero propensa a vedere le storie di tutti questi figli ( di ogni possibile etnìa, come è quasi d’obbligo ora ) che nel romanzo non esistono affatto. Mi fido ciecamente del tuo giudizio, e inizio subito la visione
Povero Beetho
Povero Beetho