31 Days of Halloween: Day 15+16 – Beaten to Death

Regia – Sam Curtain (2023)

Il Day 15 della nostra challenge recita “Rock’n’Roll”. Io ero indecisa tra due film, ma alla fine l’ha spuntata Deathgasm, anche perché l’altro me lo gioco per una delle prossime categorie. Il Day 16, invece, richiede la visione di un film che non si è mai visto, “First time watch”. Erano parecchi mesi che stavo dietro a questo micro-budget australiano, in parte perché forse ha la locandina più bella dell’anno, in parte perché si preannunciava violentissimo sin dal titolo; soprattutto, perché è australiano e io con il cinema di quella terra meravigliosa coltivo un’ossessione lunga una trentina d’anni. Purtroppo non è andata come speravo e ci prendiamo la prima fregatura della challenge arrivati a metà strada. Non è una fregatura su tutta la linea, perché Beaten to Death è davvero un film brutale come promette di essere, ma è un film molto confuso sulla strada che vuole davvero prendere e riesce nella non facile impresa di essere noioso con una durata sotto i 90 minuti. 

Comincia fortissimo: c’è un poveraccio che viene pestato all’interno di una catapecchia da un energumeno grosso come un armadio. Non sappiamo per quale motivo ciò stia accadendo, ma il pestaggio è davvero senza pietà, quelle sono botte date per uccidere e di ogni pugno ci sembra di avvertire il dolore, la sorpresa, la paura cieca. Il nostro riesce a liberarsi accoltellando il suo aggressore con una bottiglia rotta. Scopre che anche sua moglie è stata uccisa e va alla ricerca di aiuto.
Siamo in mezzo alla campagna, un posto sperduto in mezzo al nulla e abitato soltanto da bifolchi luridi che non vedono un pezzo di sapone dal secolo scorso. Il protagonista del film, al contrario, si vede che arriva dalla città ed è quindi doppiamente spaesato. Riesce a richiamare l’attenzione di un altro energumeno in un’altra catapecchia, ma finisce dalla padella nella brace. Per motivi che non vi sto a rivelare, la storia del film è tutta qui: abbiamo un personaggio, Jack, che le prende per 90 minuti. Le dà anche, per carità, ma soprattutto le prende, e ne prende così tante che a un certo punto diventa un miracolo stia ancora in piedi. Però bisogna dire che la sospensione dell’incredulità, in un film di questo tipo, va abbastanza lasciata da parte. 

Il problema di Beaten to Death non sta tanto nel fatto che un uomo che riceve la quantità di mazzate ricevute da Jack dovrebbe essere morto da un bel po’, ma nel fatto che il regista sembra essere molto indeciso tra il realizzare un filmaccio di pura exploitation e mazzate e un’opera pregna di lirismo sul caso, le decisioni sbagliate, la lotta dell’uomo contro le asperità dell’esistenza e della natura e sull’istinto di sopravvivenza. Ecco, il filmaccio exploitation funziona, l’opera lirica un po’ meno. Intendiamoci, lirismo e horror non sono cose che si escludono a vicenda, anzi, però bisogna essere in grado di amalgamarle bene. 

A questa incertezza sulla scelta di tono e registro, Curtain aggiunge anche una struttura non lineare, atta a far scoprire gradualmente al pubblico il motivo per cui il povero Jack si stato gonfiato come una zampogna. Viene quindi inserita una serie di flashback che in teoria dovrebbero servire anche a offrirci una maggiore conoscenza del protagonista, magari pure ad affezionarci un po’ a lui e alla di lui moglie, che tuttavia sparisce dall’equazione pochi minuti dopo l’inizio del film. Ora, il percorso che porta la coppia nell’outback a farsi massacrare di botte non è chiarissimo, e pure se lo fosse, è molto banale. Capisco che sia voluto, perché è proprio la natura insignificante di ciò che scatena il massacro a costituire l’ossatura concettuale del film, ma resta sempre un po’ pochino, a meno che, appunto, l’idea non sia quella di fare un ozploitation in piena regola, un action horror ultra violento privo di implicazioni filosofiche.
E invece no, perché Curtain ha le ambizioni di un novello Wake in Fright, e tuttavia gli strumenti buoni al massimo per un novello Razorback.

Per cui, largo spazio a inquadrature dalla durata infinita sul nostro protagonista che vaga solitario in mezzo al niente, girate anche bene, per carità, e contraddistinte da quel rapporto molto caldo e viscerale che i registi australiani hanno con il loro territorio, ma alla lunga noiose, proprio perché il linguaggio è incerto e la sensazione è quella di assistere a un esperimento non solo non particolarmente riuscito, ma anche privo di senso. 
Non è tutto da buttare, sia chiaro: Curtain ha delle ottime intuizioni visive, ha il senso dello spazio e la capacità di creare immagini molto belle e suggestive; il finale è un piccolo pezzo di bravura che lascia abbastanza sotto shock. Ma è tutto troppo farraginoso e vorrei ma non posso. 
E con questa piccola delusione contemporanea, ci avviamo mestamente verso il resto della challenge.

Un commento

  1. Avatar di Giuseppe
    Giuseppe · ·

    Una mezza sòla, insomma. Però, in onore a quell’altra metà che sòla sembra esserlo un po’ meno , gli potrei dare un’occhiata…