
Regia – Danny Philippou, Michael Philippou (2023)
Per il quinto giorno della challenge, la parola chiave è “Schoolhouse Screams” e io l’ho interpretata molto alla larga come generico teen horror, giusto per avere uno spazio, in questo mese affollatissimo, per parlare dell’horror più chiacchierato, annunciato, atteso dell’anno: l’esordio dei due filmmaker australiani nati nel 1992, noto ai più come Talk to Me.
Produce la A24 e questo bisogna tenerlo a mente: questo è il secondo teen horror che lo studio famoso per aver fatto dell’horror elevated un vero e proprio marchio di un certo valore commerciale, porta nelle sale. Il primo era stato, l’anno scorso, lo slasher Bodies Bodies Bodies (poi slasher non era, ma ci siamo capiti), e adesso arriva questa estremamente convenzionale storia di possessione. Quando dico convenzionale, non sto dando ancora alcun giudizio di merito o valore al film: Talk to Me si sviluppa in maniera molto aderente ai e coerente con i codici dei due filoni cui appartiene, ovvero teen horror e storia di possessioni. Non c’è necessità di stravolgerli o aggiornarli, perché è proprio in quei codici che si annidano i mezzi espressivi più adatti a dare voce alle inquietudini generazionali che i due fratelli vogliono mettere in scena.
Perché l’horror funziona sempre, a prescindere dalle epoche e dai vari cambiamenti che il linguaggio cinematografico subisce periodicamente? Perché funziona qualunque sia il veicolo attraverso cui arriva al proprio pubblico? Proprio perché, come tutto il cinema di genere del resto, dispone di un pacchetto di codici fissi, di “regole”, se così le vogliamo chiamare, che si possono adattare a ogni epoca e a ogni contesto. Di conseguenza, l’horror permette non solo di sperimentare con lo stile, dato che ci si può accomodare nel comfort di una serie di elementi stabili e fissi, ma anche di giocare con temi importanti senza risultare didascalici o senza dare l’impressione di salire in cattedra. E forse questo è anche il motivo principale per cui è un genere da sempre destinato a un pubblico abbastanza giovane.
Faccio un esempio per essere il più chiara possibile: se io scrivo un film realistico sui giovini d’oggi che, signora mia, stanno sempre attaccati a quei maledetti smartphone, non hanno stimoli, non hanno strumenti per affrontare il vuoto esistenziale e materiale che le generazioni precedenti hanno lasciato loro in eredità, rischio fortemente di rompere il cazzo al mondo intero. Se, al contrario giro un horror in cui una ragazza che ha perso la madre da poco comincia a partecipare a un gioco che consiste nell’usare la mano di una defunta medium per comunicare con l’aldilà ed essere posseduta da entità non meglio specificate, e questo trucco da prestigiatore mi riesce, ho vinto la lotteria. Dipende tutto, appunto, dal saper parlare di cose molto serie senza dare l’impressione di parlarne sul serio. Nel mentre, tocca anche realizzare un buon horror con tutte le cose al loro posto.
È anche il motivo per il quale la nozione di horror sofisticato è stata spesso travisata, non solo dagli spettatori, ma dagli stessi autori. Un horror con qualche ambizione non deve per forza rinunciare a essere un horror, e Talk to Me non ci rinuncia ma, anzi, ci va giù pesantissimo e non si tira indietro né di fronte al gore né di fronte all’elargizione generosa di spaventi. Poi, i due fratelli dietro la macchina da presa sono eccezionali nel non utilizzare, da un punto di vista tecnico, la meccanica dello spavento in maniera trita e banale, e quindi Talk to Me è un film che riesce a cogliere impreparati anche gli spettatori più avvezzi al genere. In estrema sintesi: ci sono alcuni momenti in cui fa davvero paura ed è anche in grado di tenere svegli la notte, perché è sottile e subdolo e, oltre alle apparizioni di brutte facce, alla violenza, all’orrore soprannaturale che implica la presenza di un qualcosa di malvagio pronto a sfruttare tutti i nostri punti deboli per introdursi nel livello di realtà in cui esistiamo, ci mette anche un bel carico di angoscia esistenziale.
I Philippou danno infatti a questo loro esordio l’andamento ineluttabile di un noir, con la protagonista Mia (bravissima Sophie Wilde), che come gli antieroi di un film anni ’40, è predestinata sin dalle prime inquadrature e va incontro alla propria sorte senza avere, neppure per un secondo, una possibilità di salvezza. Se tutto il discorso sulla possessione demoniaca che viene trasformata in un gioco virale è molto al passo coi tempi e ha una natura di carattere generazionale, questo senso di inevitabilità del disastro, questo essere invischiati in un percorso sbagliato, ma dal quale non si riesce, non si vuole, non si può materialmente allontanarsi, è al contrario un’esperienza universale, in grado di fare presa su chiunque. E anche qui, l’horror esce vincente su altre tipologie di racconto ancorate al tempo presente perché, al contrario, è una narrazione senza tempo, che può essere calata nella contemporaneità per il contesto e per l’ambientazione e ugualmente starsene in un limbo fiabesco in cui la contingenza attuale smette di avere significato. In altre parole, Talk to Me, con dinamiche differenti e non legate al meccanismo virale del gioco, potrebbe svolgersi negli anni ’90 del secolo scorso e funzionare lo stesso.
Come Candyman, Nightmare, o anche i vari Scream, Urban Legend e So Cosa Hai Fatto (tutti film a cui Talk to Me deve molto), Talk to Me può vivere di vita propria attraverso le generazioni, cosa che per esempio Bodies Bodies Bodies non ha gli strumenti per fare. Se sia davvero l’horror dell’anno io non lo posso sapere, e di certo la piccola crisi che il genere sta attraversando non lascia molto spazio ad altri titoli in grado di competere, ma Talk to Me è davvero un’opera d’esordio interessantissima e piena di spunti, di piccoli tocchi di genio, di potenza immaginifica e rigorosa aderenza al reale.
Inoltre, non sembra nemmeno un film d’esordio, per la consapevolezza con la quale i Philippou mettono in scena e montano ogni sequenza. In questo, bisogna dire, sono coadiuvati da un montatore, Geoff Lamb, attivo sin dalla metà degli anni ’90, sia su piccolo che su grande schermo, che ha di sicuro smussato qualche angolo e reso fluido qualche passaggio un po’ macchinoso. Anche perché Talk to Me è un film montato da padreterno, sia per quanto riguarda la successione delle scene sia per quanto riguarda il ritmo interno a ogni singola scena. Tecnicamente è perfetto. Poi forse si ammoscia un po’ nella parte centrale, dopo una mezz’ora iniziale che ti fulmina sulla poltrona, ma è robetta di poco conto. Per il resto, è davvero un horror contemporaneo da manuale.
Domani mi prendo un giorno di pausa con il J-Horror, argomento della challenge per il Day 6. Credo che guarderò per l’ennesima volta Dark Water perché ho bisogno di un po’ di sana malinconia autunnale. Ci sentiamo per il Day 7 che invece promette tanto sano divertimento.












Bene, se prima ero molto curioso di vederlo, adesso ne sono assolutamente convinto. L’idea mi piace e riuscire a parlare di tematiche così intelligenti e attuali (tipo il vuoto che provano le nuove generazioni) è una cosa che apprezzo profondamente.
Io sto già cominciando a perdere il conto…
Dunque, anche se non riuscirei a rivederlo per la challenge, per il day 4 direi “Ad Astra”: non è un horror ma mi ha lasciato un senso di vuoto e paura esistenziale (che mi è durato dei giorni) simile a quello che mi hanno lasciato film come “Hereditary” o “Midsommar” (che infatti non credo che rivedrò mai più, non da solo almeno). Per il day 5 ho ripreso volentierissimo “My Soul To Take”: è il film di Wes Craven che ho rivisto più volte dopo Scream. Per il day 6 non lo so… potrei ripescare uno dei film della mia adolescenza (che avevo visto e che conoscevo solo io, giusto perché l’horror aiuta ad integrarsi…) “carpito” per caso in whs da una notte di Fuori Orario di non so più che anno dei 90′: Hiruko the Goblin (mi piace tantissimo, è poetico, divertente, mischia più toni come piace a me, ed è anche tremendo, spaventoso ma con una luce in fondo). Ottimo anche per il day 5 perché è ambientato (spoiler) in una… high school vuota per le vacanze. Sono comunque spesso in zona “comfort”…
No, ecco, Talk to me non è affatto comfort horror, ma per niente proprio.
Me ne sono reso conto… e infatti ho ripiegato. In lista per i momenti “giusti”…
Non è la prima recensione positiva che leggo di questo film, spero di recuperarlo presto, grazie!
“Saper parlare di cose molto serie senza dare l’impressione di parlarne sul serio”: sottoscrivo e incornicio! Peccato che qui da noi, invece di seguire il buon esempio australiano, per parlare delle medesime tematiche si persista nell’adottare un registro realistico (magari ritenuto aprioristicamente superiore rispetto all’horror, quando invece non lo è manco per il cazzo) con il rischio che hai bene illustrato sopra…
È il mestiere dell’horror, da sempre. Anche senza etichetta elevated 🙂
Esatto (e in molti se ne dovrebbero ricordare qualche volta di più, specialmente dalle nostre parti) 👍
Sono passati cinquant’anni dal Walkabout di Roeg, niente più contrapposizione natura/cultura mentre la “generazione rubata” si confonde e si mischia (almeno per i Philippou) con l’ultima generazione con la quale sembra integrarsi e condividere smartphone e soprattutto fragilità e paure.
Tecnicalità e idea iniziale a parte, secondo me (e secondo tanti che lo hanno visto) il film rovina abbastanza banalmente dalla seconda metà in poi. Non si capisce più se è un teen horror, un film di possessioni o di fantasmi. Si appiattisce anche nelle interpretazioni e diventa solo un collage di vari tentativi. Tant’è che mi pare chiaro come non convenga affatto parlare della trama e di quanto va a farsi benedire (purtroppo anche negli spunti migliori).