
Regia – Ted Geoghegan (2023)
Prima di cominciare, un enorme grazie a tutti quelli che hanno commentato il post dell’altro giorno, sia qui sia sui social sia in privato. Grazie per l’affetto, i consigli, gli abbracci virtuali e le testimonianze che sono preziosissime. La novità da segnalare è che sono riuscita a vedere un film, e sono contentissima di averlo fatto perché è una delle cose migliori che il cinema dell’orrore indipendente vi proporrà nel corso di quest’anno, e perché è il ritorno dietro la macchina da presa di Geoghegan, regista del bellissimo We Are Still Here.
Brooklyn 45 dimostra che Geoghegan si trova molto a suo agio a parlare di fantasmi e a girare in ambienti ristretti. Il film si svolge infatti tutto in una sola stanza, a parte qualche minuto sul pianerottolo dell’appartamento e nella strada antistante. Siamo in una situazione ancora più contenuta rispetto a We Are Still Here, con un cast limitato a sei attori. Sette, se si include una presenza in forma ectoplasmica, ma procediamo con ordine.
Siamo alla fine del 1945 a Brooklyn, come recita il titolo, durante la notte di Capodanno, per la precisione, e quattro amici, reduci della appena conclusa Seconda Guerra Mondiale, si riuniscono a casa di uno di loro (prezzemolino Larry Fessenden) per passare la serata. Peccato che festeggiare la fine dell’anno sia l’ultimo pensiero del colonnello Hock: rimasto vedovo da poco, vuole evocare con una seduta spiritica la moglie appena morta suicida. Gli amici, un po’ perplessi ma molto leali, acconsentono e tutto va, come da copione, terribilmente storto. Questo, in estrema sintesi, è ciò che accade nel corso di un film che, tuttavia, riserva parecchie sorprese e va in una direzione che non mi aspettavo affatto. In realtà, il fantasma è appena un pretesto per mettere in scena un gioco al massacro in cui non si sa chi abbia lo scheletro nell’armadio più grosso, nessuno dice la verità e tutti sospettano di tutti.
Il fattore scatenante è, appunto, il suicidio della moglie di Hock: la donna era diventata paranoica, negli ultimi mesi della sua vita, perché convinta che la vicina di casa tedesca (Hilde, interpretata da Kristina Klebe) fosse una spia nazista. Nessuno le aveva creduto e lei aveva finito per tagliarsi i polsi. Il vero intento di Hock non è quindi comunicare con lo spettro della moglie, ma incastrare la povera vicina, che ha come unica colpa quella di essere nata in Germania e di parlare con un accento straniero. Nel momento in cui vengono rivelate le vere intenzioni del padrone di casa, ecco che il film cambia pelle e, da classica ghost story diventa un’altra cosa, una parabola sul senso di colpa, individuale e collettivo, sulle ferite non solo fisiche che lascia addosso una guerra, su che cosa atroce siano, in ogni epoca e latitudine, il nazionalismo e il patriottismo, e su quanto sia facile superare il confine che separa una brava persona da una belva.
Emblematico, in questo senso, è il personaggio di Marla, interpretato dalla sempre eccellente Anne Ramsay, unica donna del gruppo e più consapevole degli altri, per professione e storia personale, di come la violenza e la paura dell’altro possano trasformarti in un mostro: durante la guerra, Marla si occupava infatti di interrogare i prigionieri tedeschi, utilizzando metodi (per usare un eufemismo) poco ortodossi. Ora si è sposata con un tranquillo impiegato, trattato di merda dai suoi amici perché non abbastanza uomo, di guerra non vuole saperne più nulla; un bombardamento ha colpito la base in cui lavorava lasciandola mutilata a una gamba. È comprensibilmente stanca di rivangare quei ricordi, mentre gli altri sembra non amino fare niente altro. In una delle sequenze più intense del film, a Marla tocca interrogare Hilde per dimostrare agli uomini nella stanza che no, non è una spia nazista.
È una scena lunga e dolorosa, sostenuta con classe dalle due attrici, e dovrebbe in teoria portare alla conclusione della vicenda. Ma no, non basta, perché ciò che davvero vogliono i reduci nella stanza è la morte di Hilde e che sia colpevole o no non ha alcuna importanza. Hanno bisogno di continuare quella guerra che è stata l’unica cosa rilevante nelle loro vite, hanno bisogno di affermare la propria identità di maschi veri e veri americani, hanno bisogno di un nemico contro cui accanirsi e di avere una conferma continua delle loro fragili certezze. Marla non ha bisogno di tutte queste cose e infatti la sua battuta ricorrente è “fuck the war”. Cosa che i suoi amici non vogliono o non riescono a condividere, ma indice di una sanità mentale che, all’interno di questo circolo di reduci è merce molto rara.
Brooklyn 45 è un film povero, a basso costo, per ovvi motivi molto contenuto, e non solo per quanto riguarda le unità di tempo, luogo e azione: è contenuto in effetti speciali e in violenza, non è spettacolare ed esplosivo come l’orgia di sangue finale di We Are Still Here, tanto per fare un esempio, ma Geoghegan può contare su un ottimo gruppo di attori, tutte facce note per chi bazzica l’horror con una certa frequenza, su una sceneggiatura a orologeria che dispensa i suoi colpi di scena e le sue svolte narrative con una cadenza implacabile, e soprattutto sulla sua bravura nella messa in scena.
Va bene che il film è corto (92 minuti titoli di coda compresi), però si regge tutto sui dialoghi, l’azione è estremamente limitata e concentrata in un paio di scene. Per il resto, si tratta di cinque o sei persone che parlano dentro una stanza, è quasi una pièce teatrale, e quindi il ritmo lo danno gli attori e, trovandoci per nostra fortuna al cinema, i movimenti di macchina e il montaggio.
In Brooklyn 45 funziona tutto e Geoghegan si rivela uno dei più interessanti narratori horror in circolazione. Peccato faccia un film ogni 5 o 6 anni.
Per tranquillizzarvi, c’è anche un momento di gore abbastanza feroce a dimostrazione del fatto che Geoghegan è sempre lo stesso, quello che schiacciava teste e trapassava toraci nel 2015.
Lo trovate su Shudder, se siete riusciti a superare l’ordalia per abbonarvi al servizio streaming dall’Italia. Altrimenti, c’è il pensiero laterale.
Buona visione.












Mi sembra un ritorno niente male questo di Geoghegan, per quanto minimalista nella messa in scena, quindi me lo segno seduta stante 👍
P.S. Shudder? Mettiamola così: quando renderanno le cose un po’ più semplici per noi poveri tapini dall’altra sponda dell’atlantico, allora la smetterò con il pensiero laterale…
P.P.S. Come hai visto, eravamo un po’ più di quattro gatti a starti attorno… e, a proposito di gatti, fai pure una carezza a Giadina da parte mia 😉
Ho qualche difficoltà con i film che sembrano una pièce teatrale,di film ambientati in un unico luogo e sorretti prevalentemente dai dialoghi,sono pochi ad avermi realmente preso,a volte proprio non riesco a reggere la tremenda staticità delle scene in corso,ma ammetto che facile non deve essere impostare un film in questo modo,mantenendo alta la soglia dell’attenzione ed essendo condizionato a metà tra una precisa scelta creativa,è una molto più semplice mancanza di budget!. Non conosco questo regista,per qui quando ne avrò l’occasione e la voglia,penso che lo testerò,per poter valutare da me se sia di mio gusto! Una saluto a te Lucia,ripigliati!!.
Anche a me è piaciuto molto, soprattutto perché è il classico film che è facilissimo da sbagliare.
Questi i miei 2 cents:
Immaginifico e originale horror da camera strutturato alla maniera di una piece teatrale, Brooklyn 45 è una sorta di Trappola per Topi a tinte forti che trae linfa perturbante da vari “convitati di pietra”: la guerra e i traumi ad essa connessi, la paranoia come malattia mentale infuenzata dal contesto storico/politico, il razzismo, il senso di colpa.
La trama negli ultimi 20 minuti sembra un po’ incartarsi su se stessa ma l’ottima sceneggiatura, la cura nel decor old style e la rimarchevole prova degli attori (il monologo di Fessenden a proposito della sua reazione alla morte della moglie è un autentico pezzo di bravura) rendono il film avvincente e intenso.
Il monologo di Fessenden è esattamente il momento in cui mi sono agganciata al film. Magistrale.