Tanti Auguri: 40 anni di The Return of the Living Dead

Regia – Dan O’Bannon (1985)

Credo che la mia venerazione nei confronti di Romero (a partire dal nome del blog) non sia da mettere in discussione, quindi non commetto reato di lesa maestà se dico che l’impatto di The Return of the Living Dead sugli zombie e la loro percezione nella cultura popolare è stato anche superiore a quello dei film di Romero.
Chi non è particolarmente appassionato di horror, magari non conosce il film, ma sa che gli zombie mangiano cervelli, per esempio, anche solo per aver giocato mezza volta in vita sua a Plants vs Zombies. E sa che, mentre ciondolano perdendo pezzi, biascicano: “Brains”. Sono nozioni sui morti viventi ormai entrate nell’immaginario collettivo, a prescindere che si fruisca o no di cinema dell’orrore, perché lo zombie è un mostro molto pop.
Inoltre, mentre si dibatte in maniera sterile se la paternità degli zombie che corrono sia da attribuire a Boyle o a Snyder, O’Bannon faceva fare ai suoi cadaveri ambulanti degli scatti da veri centometristi.
Ci sono poi degli elementi che hanno fatto meno scuola, ma sono tutti suoi e originalissimi: gli zombie di O’Bannon parlano, hanno una coscienza, pianificano. Soprattutto, soffrono.

The Return of the Living Dead nasce tuttavia proprio da Romero: tutto comincia infatti con l’omonimo romanzo di John Russo, co-autore della sceneggiatura de La Notte dei Morti Viventi. Russo scrive il romanzo come sequel diretto del film del 1968. Le strade di Romero e Russo però si dividono, e a Russo resta il diritto di utilizzare nel titolo la dicitura “living dead”. E ora sapete anche perché i seguiti di Romero si chiamano in modo diverso.
Russo si ritrova a collaborare con Tobe Hooper e insieme decidono di fare La Notte dei Morti Viventi in 3D, progetto naufragato nel nulla; nel mentre, Hooper firma il famoso contratto con la Cannon, quello che lo porta a girare Lifeforce. Indovinate chi aveva scritto la sceneggiatura di Lifeforce? Esatto, O’Bannon, che era alla ricerca di un esordio dietro la macchina da presa. Viene offerto a lui di portare sullo schermo il romanzo di Russo, lui accetta a condizione di poterlo praticamente riscrivere da capo, e così nasce Il Ritorno dei Morti Viventi.
Che, se fosse uscito oggi, sarebbe definito un meta-sequel de La Notte dei Morti Viventi.

Infatti, nell’universo narrativo messo in piedi da O’Bannon, il film di Romero non solo esiste, ma è ispirato a fatti realmente accaduti: un esperimento militare finito male, e un gas in grado di rianimare i cadaveri (la Trioxina), che per un errore di spedizione finisce nel magazzino di una ditta di forniture farmaceutiche, insieme a un paio di corpi in decomposizione, e lì se ne sta buono per anni, almeno fino al 3 luglio del 1984.
Sul finire di una calda e noiosa giornata pre-festiva, l’impiegato veterano Frank cerca di impressionare il giovane e appena assunto Freddy mostrandogli i barili contenenti gas e cadaveri, causando la fuorisciuta della Trioxina.
È l’inizio di una scatenata commedia punk popolata di personaggi bizzarri e del tutto impreparati ad affrontare la resurrezione dei morti. The Return of the Living Dead abbandona l’impostazione seriosa data da Romero al genere e opta per un tono molto leggero e scanzonato, appunto, meta-cinematografico, che richiede agli spettatori di stare al gioco e di avere una conoscenza pregressa della filmografia a base di zombie, ai tempi molto popolare.

In parte è una parodia, in parte un affettuoso omaggio, Il Ritorno dei Morti Viventi però non vive esclusivamente sulle spalle del suo illustre predecessore. Come abbiamo detto in apertura, ha delle caratteristiche proprie, molto originali, che gli permettono di tendere allo spettatore una serie di trabocchetti, basandosi proprio sulla loro convinzione di sapere in anticipo il tipo di film che stanno guardando.
L’esempio più banale è quello relativo all’immortalità degli zombie: abituati dal 1968 a poterli eliminare comodamente con un bel colpo di pistola alla testa, si resta spiazzati e sbigottiti quanto i personaggi nell’apprendere che questi zombie sono in realtà indistruttibili, che continuano ad attaccarti in qualsiasi condizione, anche se decapitati.
Sempre per sottolineare la natura meta del film di O’Bannon, è come se ci stesse dicendo che, appunto, quello di Romero era solo un film e, in quanto tale, non poteva fare a meno di una soluzione al problema zombie. Qui no, la soluzione non esiste.

Questo continuo indulgere nelle aspettative del pubblico e poi disattenderle agisce anche a un livello più profondo, perché O’Bannon non contraddice soltanto ciò che crediamo sia la natura propria dello zombie cinematografico; contraddice anche il suo stesso registro comico. 
Il film esce lo stesso anno de Il Giorno degli Zombi di Romero, la conclusione della trilogia classica dei morti, e anche la conclusione del cinema di zombie degli anni ’80, che da quel momento in poi entra in crisi per poi risorgere soltanto con il nuovo secolo. Ma non è soltanto Day of the Dead a tirare una linea, a mettere un punto al genere, è anche, e forse soprattutto O’Bannon, che ci fa ridere di queste creature in putrefazione, ma ci mette anche di fronte alla loro condizione esistenziale, che li fa parlare; quarant’anni fa, Romero inventa Bub, lo zombie addestrato e divenuto autocosciente; O’Bannon mette in scena degli zombie che “nascono” intelligenti, consapevoli di ciò che sono. 
E qual è la principale peculiarità di un morto vivente, a parte aprire crani a morsi per mangiare cervelli? 
Il dolore. 

“I can feel myself rot”, dice la zombie tagliata a metà e legata al tavolo dell’impresa di onoranze funebri: essere morti fa male, perché si passa dall’oblio, dall’annientamento del pensiero, a una simulazione di vita meccanica, ma terribilmente cosciente.
Ho sempre trovato tragico il breve monologo della zombie e ho sempre trovato nella sofferenza del suo sguardo un riflesso della mia.
È un momento che spezza il ritmo del film, fino a quel momento indiavolato, lo rallenta, ci obbliga quasi a fermarci a riflettere e ribalta la prospettiva. Poi si torna a sorridere e a ridacchiare, ma non con la stessa leggerezza di prima, e ci si chiede anche di cosa esattamente stiamo ridendo, con chi stiamo ridendo.
Ci vuole una grande maestria per confezionare un film apparentemente scemo, per passare da Trash (la divina Linnea Quigley) che fa lo spogliarello sulle lapidi a Frank che finisce per infilarsi da solo nel forno crematorio, per essere radicali senza dare l’impressione di essere, per turlupinare così chi pensa di aver visto solo una farsaccia splatter.

Se fate caso alla serie di horror comedy uscite dopo il 1985 (Night of the Creeps, Chopping Mall, House, persino Killer Klowns from Outer Space e il remake di The Blob), tutte cercano in qualche modo di rifarsi all’estetica di O’Bannon.
Si tratta sicuramente di una fase gloriosa per le commedie horror: soltanto nel 1985 escono Re-Animator e Fright Night, e di sicuro la seconda metà degli anni ’80 è caratterizzata da uno sguardo molto smaliziato sul genere, molto probabilmente per merito di Raimi, ma la modalità con cui O’Bannon mette sullo stesso piano la risata sguaiata, la battuta triviale, l’afflato anarchico punk e quelle sei tonnellate di orrore esistenziale che ti scarica addosso nella parte finale, resta un unicum anche in un periodo così ricco di commistioni e contaminazioni. 
È un singolare miscuglio di amore per il genere, disincanto, pessimismo e gioia iconoclasta, ricordando di sfuggita che, della decina di personaggi presenti all’inizio del film, nessuno ne esce vivo, e i militari radono al suolo la piccola cittadina in cui la vicenda si svolge, perché questo è il metodo con cui le autorità risolvono i problemi da loro creati: lo sterminio. 
E se, concludendo con l’ultimo collegamento tra O’Bannon e Romero, noi siamo gli zombie e gli zombie sono noi, se condividiamo il dolore di essere coscienti, se sia loro che noi finiamo polverizzati per riparare a un errore di cui non siamo responsabili, allora tanto vale mettere la musica molto alta e ballare tra le tombe. 
It’s partytime! 


6 commenti

  1. Avatar di Jason13
    Jason13 · ·

    It’s party time ogni volta che lo guardo.

    Esistono film che, per qualche inesplicabile motivo, intersecano la traiettoria della tua vita. Lo vidi la prima volta programmato dallo Zio Tibia su Italia 1 (1990?), e da allora lo riguardo ogni volta che ho bisogno di sentirmi coccolato.

    Per me un grandissimo film, a cui hai tributato una bellissima recensione.

    Grazie

  2. Avatar di Christian Princeps
    Christian Princeps · ·

    “Ho sempre trovato nella sofferenza del suo sguardo una sofferenza della mia” ; non so se fosse voluta, ma sembra quasi una citazione (lì più che di sguardi si parlava di sorte)delle considerazioni di Odisseo sulla triste condizione di Aiace Telamone, comune a tutti gli esseri umani,nella tragedia “Aiace” di Sofocle…

    1. Avatar di Christian Princeps
      Christian Princeps · ·

      “..un riflesso della mia…”

  3. Avatar di Frank La Strega

    Un film davvero bellissimo!🙂

  4. Avatar di Giuseppe
    Giuseppe · ·

    Un quarantennale da celebrare più che doverosamente, con gli inarrestabili morti viventi di O’Bannon costretti a “vivere” la tragedia (e il dolore) di essere del tutto consapevoli della loro nuova non-vita…

  5. Avatar di Carlo Macchiavello
    Carlo Macchiavello · ·

    Adoro questa saga, proprio perchè non prendendosi completamente sul serio, e cambiando pian piano i paradigmi stabili fino a quel momento, diventava sempre più interessante 😀