
Regia – Danny Boyle (2025)
La buona notizia è che Danny Boyle è uscito dall’adolescenza entrando finalmente nell’età adulta; poi, purtroppo per alcuni e per fortuna per altri, è sempre lui, e quindi i suoi vezzi stilistici stanno sempre lì a dare fastidio, ma se non altro questa volta li ha un po’ mitigati, in particolare nella seconda parte del film.
Come avrete forse intuito, non ho una relazione troppo serena con il cinema di Boyle. Credo non esista un suo solo film da cui sono uscita soddisfatta (escluso questo). Neanche 28 Giorni dopo mi fa impazzire, e ho sempre preferito 28 Settimane dopo.
Si tratta, in ogni caso, e a prescindere dalle mie idiosincrasie personali, di due film molto interessanti, perché entrambi riflettono con precisione millimetrica il clima dell’epoca in cui sono usciti. 28 Giorni dopo è anche un film importante per aver contribuito a rilanciare il cinema di zombie quando era morto e sepolto (scusate).
Non facciamo questioni di lana caprina su 28 Giorni dopo: saranno pure infetti, e quindi tecnicamente vivi, ma è cinema di zombie in tutto e per tutto: non ha alcuna rilevanza, infatti, che gli infetti siano ancora in vita.
Stessa cosa non si può dire di 28 Anni dopo, dove la faccenda prende tutta un’altra piega e in effetti è determinante, in molte circostanze, che questi tizi ignudi che si aggirano per la ridente costa della Gran Bretagna abbiano ancora tutte le funzioni vitali intatte.
La Gran Bretagna è in quarantena da 28 anni, con navi delle marine internazionali che pattugliano le zone costiere onde evitare che qualcuno esca diffondendo la rabbia sul continente.
Seguiamo la vicenda di Spike, un dodicenne nato e cresciuto in pandemia, di suo padre Jamie (Aaron Taylor-Johnson) e di sua madre Isla (Jodie Comer): la famigliola vive in un villaggio su Lindisfarne, una piccola isola collegata alla terra ferma da una lingua di terra che però scompare quando c’è alta marea. Spike non ha mai attraversato quel tratto di mare, ma è giunto il momento della sua iniziazione: col padre, abbandona la tranquillità della sua casa per avventurarsi nelle terre selvagge e ancora popolate da infetti. Ovviamente, i due se la vedono molto brutta. Ma il film non è soltanto questo: è anzi diviso in maniera piuttosto netta in due parti, due riti di passaggio per Spike: il primo in compagnia del padre; il secondo in compagnia della madre, affetta da una misteriosa malattia, impossibile da diagnosticare a causa dell’assenza di dottori sull’isola. Proprio per trovare un medico Spike affronterà il suo secondo viaggio.
Più improntata all’azione pura la prima parte, più alla riflessione la seconda, perché cambia il punto di vista attraverso cui viviamo i due momenti della vita di Spike: quello del padre, che pensa di avere tutto sotto controllo, che basti armarsi di arco e frecce e colpire tutto ciò che si muove per dominare il nuovo mondo (anzi, la nuova Inghilterra) uscito dal diffondersi dell’infezione, e quello della madre, che invece sta perdendo il controllo anche sul proprio corpo a causa della malattia e, pur sembrando indifesa e bisognosa di protezione, mostra a Spike di essere di fronte a una realtà molto più complessa, varia e sfaccettata rispetto a quella che gli ha fatto vedere Jamie, e non priva di una certa bellezza.
Insomma, avrete capito che 28 Anni dopo è un coming of age in piena regola. Anche 28 Giorni dopo era, a suo modo, un coming of age, per non parlare dei due ragazzini protagonisti di 28 Settimane dopo. Siamo in linea con le tematiche della saga, ma qui è tutto meno dispersivo, siamo concentrati su Spike e sul suo processo di crescita, sul modo in cui le circostanze lo obbligano a mettere in discussione i valori e le regole appresi da Jamie e a elaborarne dei propri.
Boyle è uno dei registi più britannici sulla faccia della terra (no, questo non è uno dei suoi difetti), nel senso che ha un rapporto con il territorio molto intimo e questa intimità traspare dal suo cinema, sia quando è in forma sia quando la butta in caciara. Qui è particolarmente in forma e il concetto di un’Inghilterra completamente isolata dal resto di un mondo che è andato avanti, lasciandola a regredire a uno stadio pre-moderno è decisamente efficace. Non solo perché richiama eventi di recente memoria e decisioni sbagliate, ma perché permette a Boyle di darci un bellissimo ritratto dell’ordinario squallore d’oltre manica che da queste parti è diventato la principale cifra estetica del cinema britannico contemporaneo, inserendolo però in un contesto apocalittico, tanto più specifico perché relativo a una sola parte del pianeta.
Lo sguardo di Boyle viaggia all’interno di un paesaggio che è allo stesso tempo familiare e profondamente modificato dalla ridotta presenza umana. Ho apprezzato la scelta, almeno in questo primo capitolo della nuova trilogia, di evitare le ambientazioni urbane e mostrare pochissimi residui (il vagone di un treno, un paio di edifici, una vecchia stazione di servizio) della defunta civiltà.
Il film è molto coerente con il suo predecessore diretto, ovvero 28 Giorni dopo: ha gli stessi toni malinconici alternati a scoppi furiosi di violenza e azione, delle simili stramberie stilistiche (vi ricordate che, a un certo punto, i superstiti guidavano dentro a un dipinto?), ma è anche un’opera più centrata e più consapevole; di nuovo, nonostante il protagonista sia poco più che un bambino, 28 Anni dopo è un film adulto, anche pacato, se vogliamo. Riflette sulle nostre caducità e mortalità, su quanto siamo transitori e insignificanti, e lo fa attraverso gli occhi di una persona che queste nozioni dovrebbe averle ben impresse: dopotutto è nato nel bel mezzo di un’apocalisse, e per quanto circoscritta a un solo paese, l’apocalisse è tutto ciò che Spike conosce. Ma invece non è così, perché un conto è tirare una freccia in testa a un infetto, un altro è venire a patti con la mortalità delle persone che amiamo. La cosa migliore del film è che questa lezione non viene appresa attraverso la violenza, ma attraverso la dolcezza, un atto di umana pietà, la comprensione che, alla fine di tutto, l’amore rimane comunque.
Poi, Boyle è pur sempre Boyle e ci deve mettere la sua firma, con un paio di stacchi di montaggio che mi hanno fatto saltare sulla poltrona, e non in senso buono, e quella roba davvero cafonissima del ralenty con gli I-phone ogni volta che qualcuno ammazza un infetto. Ma va bene, lasciamolo giocare che tanto alcune cose non cambieranno mai ed è pure giusto, anche se a me non piacciono.
Per il resto, il film abbassa moltissimo il ritmo nella seconda parte, perché cambia in profondità il tono del racconto, e in effetti la seconda parte è la migliore, in particolare dall’ingresso in campo del dottor Kelson interpretato da Ralph Fiennes che fa sempre la sua figura da gigante.
Gli attori sono tutti eccellenti, il giovanissimo Alfie Williams è eccezionale nel dare al suo Spike tutte le sfumature possibili, e questa è un’altra buona notizia, perché sarà il protagonista dell’intera trilogia e lo vedremo crescere sullo schermo.
Ma chi fa davvero impressione è Jodie Comer, così misurata e sottile che basta vederla annuire in una particolare scena (se l’avete visto, sapete) per farci andare il cuore in frantumi.
Insomma, 28 Anni dopo è davvero un grande film, e se ve lo dico io che con Danny Boyle proprio non vado d’accordo, dovete credermi.












Sì, se parli bene di Danny Boyle vuol dire che pensi che con 28 Anni dopo sia diventato adulto per davvero (Garland gli avrà dato una mano) 😉 In un tale contesto britannico epidemico e “isolazionista” non si sarebbe trovato affatto male nemmeno Neil Marshall, credo (e chissà che Boyle, qui, non abbia inteso fare una sorta di omaggio al collega)…
28 giorni dopo è molto bello, come il successivo. Li consideravo talmente “film di zombi” che mi ero dimenticato che si trattasse di infetti…
ma è anche una questione di lana caprina, secondo me: sono film di zombie, che siano infetti, almeno nei primi film, è del tutto accidentale
Interessante. Boyle è Boyle. Prendere o lasciare.