
Regia – Ti West (2009)
Il secondo giorno della challenge recita “Best Death” e, dato che l’horror parla sostanzialmente di morti ammazzati, offre uno spettro di scelte molto ampio. Per ovvie ragioni di spoiler, non dirò in testa all’articolo a quale morte in particolare mi riferisco, ma sappiate che, a un certo punto, ne parlerò e quindi, se per caso non aveste ancora avuto la fortuna di vedere The House of the Devil, rimediate prima di leggere, grazie.
La Glass Eye Pix era la A24 prima ancora che esistesse, una A24. La casa di produzione fondata da Larry Fessenden nel 1985 ha sempre compiuto, anche se nel fango, senza soldi e con la critica ostinatamente girata dall’altra parte, operazioni molto simili a quelle che avrebbero in seguito resa famosa la A24. Le ragioni per cui la A24 fa impazzire i cinefili mentre la Glass Eye Pix non la conosce nessuno sono complesse e meriterebbero un lungo discorso relativo alla storia dell’horror nel XXI secolo, ma non è questa la sede.
Ciò che è importante, in merito al film di oggi, è che senza The House of the Devil, forse non staremmo qui a parlare da almeno una decina d’anni di horror sofisticato, ma forse non esisterebbero neanche il Warrenverse e tutto l’horror gotico neoclassico più commerciale.
The House of the Devil non è l’esordio di Ti West. A parte un pugno di cortometraggi, il regista ha già all’attivo due film quando gira questo. È tuttavia il film che lo ha messo sul radar degli appassionati, anche se si tratta di un’opera indipendente e a basso budget che è stata distribuita in VOD e, a parte un’apparizione al Tribeca, è passata in sala soltanto di striscio.
È difficile che film così avessero un qualche tipo di impatto culturale all’epoca: andare dritti sul mercato home video era considerata una faccenda parecchio disdicevole, roba da nasty movie anni ’80, appunto.
The House of the Devil non è un film che cita gli anni ’80, è un film degli anni ’80. È come se avessero trovato, in un vecchio magazzino di una qualche scalcinata casa di produzione ormai fallita, delle pizze di pellicola contenenti un film rimasto inedito e poi lo avessero dato in pasto al pubblico così com’era, senza neanche disturbarsi a restaurarlo.
Bisogna cercare di ritornare un po’ indietro a quel 2009 per capire l’effetto di un film così concepito sugli spettatori. Ci troviamo alla fine dell’ondata di remake che ha caratterizzato i primi anni 2000 e, come qui è stato ripetuto fino alla nausea, i rifacimenti di film anni ’70 e ’80 seguivano uno schema molto preciso e reiterato: si prendeva un film di qualche anno prima, se ne adottava la struttura narrativa quel tanto che bastava a renderla in qualche modo riconoscibile, e si stravolgeva completamente lo stile, adeguandolo ai gusti contemporanei.
Ti West l’esatto opposto.
Esiste una differenza, non formale ma sostanziale, tra citazionismo nostalgico (spesso condito con distacco ironico) e recupero filologico. Il primo può essere rappresentato, con qualche semplificazione, dall’inquadratura sul fondoschiena di Jessica Biel nel remake del 2003 di Non Aprite quella Porta; il secondo è tutto l’enorme lavoro di ricostruzione fatto da Ti West in The House of the Devil, ovvero girare in 16mm per riprodurre la grana della pellicola d’epoca, utilizzare tutti i vezzi e le stramberie estetiche dell’horror di serie B dei primi anni ’80, e quindi gli zoom al posto dei carrelli, per esempio, o i freeze frame nei titoli di testa con il loro bellissimo font giallo. Ma non solo: gli anni ’80 di Ti West non sembrano avere il filtro di uno sguardo moderno. In altre parole, non c’è alcuna rievocazione attuata attraverso la nostalgia né il distacco di chi è superiore a questa robaccia che si faceva quando il paesaggio del cinema era popolato da selvaggi illetterati.
Se la macchina da presa di Ti West zooma sul volto di Jocelin Donahue, è perché in quel preciso momento del film è necessario avvicinarsi al personaggio per creare una relazione emotiva tra lei e noi, non perché devi essere consapevole che il regista ha visto tutta la filmografia di Mario Bava. Non è Grindhouse, non è per ridere, è perché quelli erano i mezzi con i quali, 40 anni e passa fa, si raccontavano certe storie.
Col tempo, Ti West, pur continuando a essere un filologo del cinema di serie B, ha aggiunto strati su strati di complessità ai suoi film. La trilogia appena conclusa è lì dimostrarlo. Ma in The House of the Devil già c’è tutto, e in particolare, è presente ciò che rende l’horror “sofisticato” o “elevated” oggi: la precisa volontà di non fare distinzioni tra alto e basso. Qui, rispetto ai lavori di un Aster o di un Peele, è ancora più radicale, un po’ perché siamo nel 2009, e ai tempi ci voleva una discreta dose di coraggio, un po’ perché West riesce a essere un autore senza mettere di mezzo i Grandi Temi; poi lo fa pure lui, ma è molto più leggero e sottile rispetto alla media odierna.
The House of the Devil rivendica la sua identità di horror d’autore ma non ha bisogno di apporre le didascalie che ti spiegano di cosa sta veramente parlando mentre fa esplodere la testa alla gente; la rivendica usando il linguaggio dei filmacci fatti con tre lire ai tempi dei video nasties, imbastendo una vicenda a base di satanic panic e nascita dell’Anticristo, perché l’intento, nei primi anni ’80, era quello di guadagnare parassitando capolavori come Rosemary’s Baby e L’Esorcista, e lucrare sulle paure di un intero paese.
Tutto questo, Ti West lo ingloba nel suo film e se lo appunta al petto come una medaglia. Non vi è alcun senso di superiorità rispetto a roba come Beyond Evil o La Promessa di Satana. West non ha l’atteggiamento alla Tarantino per cui si copia un’inquadratura, un movimento di macchina, una palette cromatica solo per dimostrare di essere migliori, più bravi, più evoluti. Lui è parte di quella tradizione e, allo stesso tempo, è un giovane autore che intende portarla avanti a modo suo. È per questo che The House of the Devil è un film perfetto e un capolavoro, perché è un’operazione intellettuale, cerebrale, sofisticatissima, ma non te lo fa pesare un solo istante, a stento te lo dichiara, perché, anche nel suo voler giocare a ricreare uno stile morto di un’epoca morta, non dimentica mai di raccontare una buona storia, di darti dei personaggi per cui vale la pena soffrire, tifare, arrabbiarsi e odiare, perché perde diversi minuti a mostrarti una ragazza da sola in una casa che non conosce, non fa accadere quasi niente e tu sei lì, seduta sul bordo della tua poltroncina a sperare che non le capiti niente di male, a sentire la tensione che sale, lentamente, a temere per ogni porta che viene aperta, per ogni nuova stanza che viene scoperta, per ogni rampa di scale salita o scesa.
E perché, quando Samantha comincia a ballare con il suo walkman dalle cuffie arancioni, ti innamori. E a quel punto appartieni a Ti West e lui può fare di te ciò che vuole. Ti ha agganciato, ti ha messo in trappola e non ti ha neanche dato il tempo di accorgerti che da quella casa non si esce.
Adesso vi chiederete perché ho scelto questo film per la categoria Best Death.
Sembra assurdo che la regista di Barbie e Piccole Donne un tempo fosse seduta ai tavoli di una fetida pizzeria a bere bicchieri giganti di coca cola, o a rubare le caramelle da un tavolino da salotto in una casa di vecchi satanisti. Eppure, Greta Gerwig, tassello fondamentale di quel movimento noto come mumblecore, qui interpreta la migliore amica della protagonista Samantha. Fa una pessima fine, in una delle rarissime scene shock di un film che è quasi tutto atmosfera e attesa. La sua morte segna il punto di non ritorno per The House of the Devil: da quel momento in poi, sappiamo che il destino di Samantha è segnato e su tutto il film si spande un senso di catastrofe imminente.
La funzione narrativa del colpo di pistola che sottrae il personaggio di Megan dall’equazione è chiara: Samantha ora è sola, ma soprattutto ha a che fare con persone del tutto indifferenti alla vita umana.
Avviene in un attimo, non la vedi arrivare neanche sei uno scafato spettatore di horror dalla nascita e, tutte le volte, ti colpisce con una brutalità inusitata.
E bellissima.
Il cinema horror di morti spettacolari, bizzarre, strazianti e oscene ne conta a migliaia. Ma, se devo pensare alla rappresentazione della morte al cinema, al suo calare all’improvviso, tra sangue, sbigottimento e indifferenza, penso sempre a questa scena.












Buongiorno Lucia,per la seconda challenge di oggi “Morte Preferita”,ce ne sarebbero tanti di film,per qui andando indietro nei miei ricordi di fruitore di film dell’orrore nei videonoleggi,ho fatto una scelta molto de panza,insomma una delle scene di morte ad avermi colpito piu’ da ragazzo,e’ per questo mi sono rivolto alla mia amata Dark Castel di Silver & Zemeckis,ho scelto “Nave Fantasma”(2002),e per chi conosce il film sa a quale scena mi riferisco……..mamma mia😳!.👋
L’inizio di Nave Fantasma è una roba spettacolare
Pensando alle “best death” anche a me è venuta in mente quella scena (inaspettata e scioccante) del film di Ti West. Ora, mentre scrivo, mi accorgo di altri collegamenti con il tema del giorno e con il post. Un po’ di anni fa ho ricominciato ad appassionarmi all’horror grazie al lavoro in rete di un blogger che non c’è più: è merito suo se ho conosciuto “The House of the Devil” e molto altro, insieme ad uno sguardo profondo e intelligente sul cinema “di genere”.
Per me è bello ricordarlo
(cerco di non spoilerare troppo apertamente)
Le mie scelte principali di oggi sono molto “emozionali”: il finale di Big Fish (dall’ospedale in poi), alla quale aggiungo (perché ci penso sempre in questi casi) la traiettoria del mio personaggio preferito di Dimensione Terrore.
Besos!
“Best Death”? Una scelta per me sia facile che difficile allo stesso tempo: facile per quanto riguarda il film o, meglio, la saga che è quella di Final Destination, difficile perché in mezzo a una vera e propria gara di “mortale” creatività faccio davvero fatica a decidere quale sia la migliore 😉 The House of the Devil ne ha una bella tosta, crudele e inaspettata, vero… Certo che, parlando della perfetta aderenza allo stile dell’epoca messa qui in scena, Ti West sembra aver viaggiato nel tempo per tornarci davvero, a quegli anni ’80. 👏👏