
Regia – Joshua John Miller (2024)
Buongiorno a tuttə e ben ritrovatə a quel momento dell’anno in cui la vostra Lucia difende un film ridicolizzato e vilipeso in ogni angolo della rete, e pure fuori. Io stessa non sono andata a vederlo in sala perché convinta dagli schiamazzi. Per fortuna ci sono le mie amiche Ilaria e Marika che mi hanno detto: “Guarda che è bello” e mi hanno spinta a dare un’occhiata a The Exorcism. Sia mai mi venga precluso un bel fiume di lacrime, che qui ne abbiamo sempre bisogno.
È regola generale che un film debba parlare agli spettatori da solo, a prescindere dal contesto in cui è stato realizzato, ed è vero, è giusto. Chi si reca al cinema, o si siede sul divano a casa a guardarsi un film, non è tenuto a conoscere le circostanze che hanno reso tale l’opera di cui sta fruendo.
Solo che, nel caso specifico, è davvero difficile separare la storia personale di Miller dal suo esordio, tanto le due cose sono intrecciate tra loro.
Oltre a essere lo sceneggiatore di quel capolavoro di The Final Girls, e uno dei protagonisti di Near Dark, Miller è il figlio di Jason Miller, sì padre Karras de L’Esorcista, ma anche vincitore del Pulitzer nel 1973, tra le altre cose, che sono tantissime e non starò qui a enumerarle tutte.
Per il film di cui parliamo oggi, ci interessa soprattutto padre Karras, perché The Exorcism (titolo discutibile e cambiato in corsa per ragioni a me ignote) racconta proprio di un attore hollywoodiano impegnato sul set di un film, The Georgetown Project, che è una sorta di remake non ufficiale de L’Esorcista.
Di conseguenza, è ovvio ed è anche lecito che ci siano continui rimandi al film di Friedkin. Questa volta non si tratta solo di fare citazionismo un tanto al chilo perché ogni storia di possessione che si rispetti deve fare riferimento in qualche modo a L’Esorcista. Questa volta ci sono delle ragioni profonde e importanti perché sia così.
Ma resta vero il fatto che non siete tenuti a saperlo, e che si tratta di un dettaglio che non dovrebbe avere nulla a che vedere con la qualità del film. Deve solo essere chiaro che Miller non sta copiando, ecco.
Il nostro attore in disgrazia che si gioca l’ultima cartuccia di una carriera andata allo sbando, si chiama Tony Miller (appunto) ed è interpretato da Russel Crowe. Ha una figlia, Lee (Ryan Simpkins) con la quale sta cercando di ricucire un rapporto complicato. Tony è un alcolista in via di disintossicazione, ha abbandonato la moglie mentre era malata di cancro e spedito Lee in collegio. La ragazza viene espulsa e torna a casa proprio quando il papà ottiene questo nuovo lavoro che potrebbe salvargli la carriera o affossargliela in maniera definitiva.
La situazione, già traballante di suo, si aggrava quando entra a gamba tesa satanasso.
Sapete bene che quello de L’Esorcista è stato un set “maledetto”. Non sto a fornirvi i dettagli perché li sapete e poi che noia. Sta di fatto che qui Miller mischia la sua storia personale, il suo rapporto con il padre, la sua conoscenza approfondita dei meccanismi produttivi cinematografici, con le leggende nate intorno alla lavorazione dell’horror che, più di qualunque altro film, ha cambiato la storia del genere.
Può piacere, può non piacere, può sembrare un’operazione interessante o un giochino stantio, ma The Exorcism è questo: un racconto sul cinema e sulle relazioni che dal cinema sono inevitabilmente segnate e spesso compromesse. La parte horror, seppur presente, è la più debole, e questo è un difetto, ma è anche la meno importante.
È un film bizzarro e sbilanciato, che affronta tematiche terribilmente intime e personali usando tuttavia il linguaggio dell’horror contemporaneo più commerciale, quello che per comodità identifichiamo con la Blumhouse. La presenza di un attore come Crowe, che ultimamente ha sostituito Cage nel processo di memificazione aggressiva, forse non ha aiutato molto. Ma il punto è che, proprio come Cage, Crowe è un attore eccellente, con una comprensione profonda del ruolo a lui assegnato e con una capacità unica di arrivare preciso come un orologio svizzero a tutti gli appuntamenti emotivi richiesti al personaggio.
Dall’altro lato, abbiamo una Simpkins che diventa ogni film più brava e non mi capacito di come ancora non abbia ottenuto il riconoscimento che merita, anche dopo Fear Street.
La relazione tra padre e figlia è il cuore del film, ed è anche la cosa che meglio funziona, quella più sentita e più vera.
Io, di padri cinematografari e con dipendenze allegate, ne so qualcosina. The Exorcism mi ha colpita in punti molto sensibili, e di conseguenza non sono in grado di giudicarlo con il distacco necessario. Però posso vantare una certa cognizione di causa sul contesto, e vi posso assicurare che, fatte le debite proporzioni (mio padre non era un attore, non lavorava in quel di Hollywood, non stava sotto i riflettori), il film racconta in maniera impeccabile la vita di una figlia alle prese con un momento molto difficile nella carriera cinematografica di suo padre, le umiliazioni a cui è costretta ad assistere suo malgrado, la sensazione orribile di fallimento che la coinvolge a livello personale, anche se lei non dovrebbe averci nulla a che spartire, il sentirsi sulle spalle l’eredità di questo fallimento, insieme alla convinzione che, prima o poi, toccherà anche a lei.
Il tutto sotto la lente del cinema, visto non come fabbrica dei sogni, ma come mestiere che sa essere duro e spietato, un rullo compressore che schiaccia qualunque cosa si trovi di fronte e non fa prigionieri, e comunque ti dà sempre una percezione della realtà distorta, come se ci fosse una parete divisoria tra te e il mondo.
E poi c’è tutta la questione legata all’alcolismo di Tony, che è di fatto la vera possessione raccontata dal film; ci si mette tanto ad arrivare alla conclusione che l’attore sia stato posseduto da un demone perché non c’è poi tanta differenza tra le manifestazioni del maligno e ciò che gli accade quando è ubriaco. Il cambiamento è identico, le parole orrende con cui colpisce la figlia, facendo leva su ogni suo punto debole, sono le stesse; non è tanto un problema si incredulità o di scetticismo, è che si è troppo abituati ad avere a che fare con una persona “non in sé” per arrivare a pensare a cause soprannaturali.
E infatti, forse il problema più grosso di The Exorcism risiede proprio qui: non aver mantenuto questa ambiguità sino in fondo. Tutta la parte dedicata all’esorcismo è, di fatto, una baracconata che ti aspetteresti in uno spin-off di The Conjuring. Capisco perché il pubblico non abbia apprezzato, e neanche mi pongo più di tanto la domanda su eventuali ingerenze produttive. So che alcune scene sono state rigirate, dopo una lunga interruzione dalla fine del 2019 al 2023, ma non ho idea di quali siano, quindi non voglio giungere a conclusioni non basate sui fatti.
È comunque strano che un film così accorto nel stabilire il parallelismo tra dipendenza e possessione, si sfilacci in questo modo in un finale da avanspettacolo. Può anche essere che Miller abbia voluto portare avanti il discorso metacinematografico fino alle conseguenze più estreme, ma comunque non mi torna e funziona poco.
Resta, tuttavia, un buon film, che se presentato in maniera diversa, forse avrebbe potuto trovare il proprio pubblico. Confido in Miller per il futuro.











