A Quiet Place: Day One

Regia – Michael Sarnoski (2024)

Avrei dovuto sapere come sarebbe andata a finire non appena ho letto che il regista era lo stesso di Pig, che sia maledetto nei secoli dei secoli. Eppure ho pensato: ma tanto è una ormai consolidata saga coi mostri, cosa mai potrebbe andare storto?
Sono stata punita per la mia tracotanza: non ho mai, in tutta la mia vita, pianto tanto per un horror in sala. C’è il precedente di The Final Girl, ma l’ho visto a casa mia, dove potevo singhiozzare quanto mi pareva. Qui è stata un’apocalisse di lacrime e moccio. Una cosa indecente e disgustosa e in pubblico. Di conseguenza, non fate come me: informatevi prima. Io mi ero informata soltanto sul destino del gatto, ignorando completamente tutte le altre implicazioni. Di solito, è bello andare a vedere un film senza saperne nulla o quasi; in questo caso, credo sia meglio arrivarci con un minimo di preparazione. Se tuttavia preferite venire investiti da un treno emotivo in corsa, non proseguite nella lettura.

L’horror ha spesso affrontato il tema difficilissimo delle malattie terminali; anzi, possiamo dire che horror e malattia vanno a braccetto da sempre, sono un binomio infallibile. L’intero filone del body horror non è altro che una metafora gigantesca del concetto di corpo che ti si rivolta contro, e cos’è una malattia se non questo? A me alla fine ha detto bene, ma l’orribile sensazione di abitare un corpo che si rifiuta di rispondere ai tuoi comandi non la dimenticherò più per il resto della mia vita.
Non è sempre stato metaforico, l’horror, nel suo affrontare la malattia: pensiamo a film come Relic, The Dark and the Wicked o a serie come The Midnight Club, che è forse la cosa più vicina, come trattamento riservato alla protagonista, a questo prequel/spin off di A Quiet Place. Qui la malattia non è il sotto testo, è il testo, è il cuore narrativo del film. 
La protagonista Samira (una Lupita Nyong’o che se non riceverà una nomination è solo perché l’horror è il parente povero dei generi cinematografici) ha infatti un tumore allo stadio terminale e si ritrova a New York, insieme ad altri pazienti dell’hospice in cui è ricoverata, per assistere a uno spettacolo di marionette, proprio il giorno in cui le creature invadono il pianeta. 

Questa la premessa del film. La storia è semplicemente quella di Samira che attraversa la città per andare a morire ad Harlem, in un luogo molto specifico di Harlem. Ad accompagnarla in questo ultimo viaggio, ci sono il suo bellissimo gatto Frodo, vero co-protagonista del film e attore incredibile, e un ragazzo incontrato per caso durante uno degli attacchi dei mostri, Eric (Joseph Quinn). 
A Quiet Place: Day One non ha molto a che spartire con i due film precedenti della saga, entrambi basati sul mantenimento del nucleo familiare tradizionale nel bel mezzo dell’apocalisse. Non esiste alcuna famiglia da preservare; ci sono due persone rimaste completamente sole che affrontano un breve tratto di strada insieme, per poi prendere direzioni molto diverse. Per uno la sopravvivenza, per l’altra la morte. La relazione tra i due non può che essere estemporanea e passeggera, per quanto ad alta intensità, perché Eric sa che a Samira non resta molto da vivere e Samira sa che Eric non può e non deve accompagnarla per sempre. 
Non vi è dunque proiezione verso il futuro della specie, la ricostruzione di una società con caratteristiche simili a quella precedente: c’è Samira, per ovvi motivi, ripiegata nel proprio passato e alla ricerca di esso, ed Eric che aspira giusto ad arrivare al giorno successivo. 

Fa meno paura degli altri due film?
Sì, certo: più che un horror è un film drammatico coi mostri. Non mancano le solite scene di tensione insostenibile tipiche della saga, quelle che riescono a zittire un’intera platea terrorizzata dall’idea che il minimo rumore possa portare le creature ad attaccare. Mai visti cinema così silenziosi come in un qualsiasi film di A Quiet Place; piccoli miracoli del cinematografo.
In questo caso, sono anche rese più intense dallo stato di salute di Samira e dalla presenza del gatto Frodo, che si mette sempre nei guai, ma li affronta la calma serafica propria di quegli esseri superiori chiamati felini.
Sarnoski è anche molto bravo a metterle in scena, aiutato da un’ambientazione diversa rispetto ai due film precedenti. Abbiamo già visto, anche se per pochi minuti, i mostri operare in un contesto (quasi) urbano e in luoghi affollati nei flashback di A Quiet Place 2, ma New York è un’altra cosa, sia nelle scene iniziali del film, quando le strade sono ancora piene di gente, sia quando invece la città è deserta perché sono tutti rintanati da qualche parte o hanno già raggiunto i punti di raccolta sull’acqua.
Il film sfrutta tutte le potenzialità offerte dalle location, usando un’ottima miscela di set reali, ricostruzioni in studio e aggiunte varie in post produzione, soprattutto macerie, ponti bombardati, palazzi crollati. 

L’ansia, in alcuni momenti, e in particolare nella prima parte del film, è palpabile. La prima volta in cui vediamo i mostri in azione, memorabile, perché assistiamo alla scena dal punto di vista sbigottito e incredulo di Samira e vediamo la sua città che le collassa intorno nell’impotenza generale. 
Non è un film particolarmente violento, come del resto non lo erano i suoi predecessori. Non c’è sangue, ciò che accade quando i mostri ti prendono non è mai visibile. Insomma, è un chiarissimo PG13 che sarebbe pure divertente, se ogni sguardo di Lupita Nyong’o non ti strappasse il cuore dal petto e ogni sequenza in cui non ci sono le creature non ti facesse male a un livello quasi fisico. 
Che poi, mi chiedo sempre più spesso il motivo che spinge un grande quantitativo di persone a snobbare ancora il cinema horror, quando il genere è ormai diventato così onnicomprensivo, così capace di affrontare qualsiasi tipo di argomento senza più rivolgersi a una nicchia, ma essendo alla portata di tutti. 

Un elemento presente nell’intera saga di A Quiet Place, ma che in questo film è ancora più importante, è l’assenza di dialoghi. Si tratta sempre di film quasi muti. Però, qui abbiamo una protagonista che si porta sulle spalle un macigno di sentimenti complessi, stratificati e anche contrastanti tra loro e non può esprimerli spiegandoli o parlando con altri personaggi. Samira ha soltanto il suo sguardo sgomento su un mondo che sta finendo, sulla sua vita che sta finendo, da offrire alla macchina da presa e, di conseguenza, a noi spettatori.
Stessa cosa per quanto riguarda Eric e la relazione che instaura con Samira. È tutto basato su gesti e scambi di occhiate. Poche parole sussurrate, brevi momenti in cui si può parlare ad alta voce perché coperti dal rumore della pioggia e dei tuoni. E poi comunque non ci sarebbe il tempo per dirsi tutto, perché si va di corsa e perché Samira ne ha troppo poco. C’è un’urgenza di volersi bene per quel poco che ci resta da stare insieme, in questo film, che mi ha spogliata di ogni possibile difesa. Potreste controbattere, se mi conoscete, che io di difese non ne ho poi molte, e forse sono io, particolarmente suscettibile a certe tematiche, a certe situazioni, a certe forme di comunicazione che sono soltanto di carattere emotivo e si basano sull’aggrapparsi l’uno all’altro perché intorno non c’è più niente. Può darsi che il film non vi tocchi, che vi annoi perché non c’è abbastanza azione, non ci sono abbastanza mostri. O anche perché, in fondo, è un film dal messaggio semplicissimo.
Ma se proverete a specchiarvi nello sguardo di Lupita Nyong’o, ci troverete tutta l’umanità di cui avete bisogno per sopravvivere un altro giorno ancora e pensare che non tutto sia proprio da buttare.
 

7 commenti

  1. Avatar di Mariya

    Lupita sembra proprio nata per il genere horror,come mia Goth

  2. Avatar di Marco INAUDI
    Marco INAUDI · ·

    Ciao Lucia. Visto anch’io in sala e al contrario di te non l’ho apprezzato abbastanza. Con questa saga non riesco a sospendere molto il senso di incredulità. Sarà colpa di troppi mostri insieme, del perché uccidano la gente senza cibarsene; e lo so che sono domande stupide da porsi, ma la mia mente lavora così e non riesco a farci nulla.Mentre sono d’ accordo che Lupita meriterebbe l’ oscar come minimo e anch’io ho pianto come una fontana e nonostante sapessi che non fosse possibile, fino all’ ultimo ho sperato che anche lei salisse sulla barca. Sono convinto che che ci sia del bello e del buono in alcune persone e che valga la pena vivere per passare con loro il tempo che ci concesso di vivere. Un abbraccio forte. Ciao!

  3. Avatar di Giuseppe
    Giuseppe · ·

    Quando si tratta di qualcosa (una malattia terminale) che si è vissuta di persona in famiglia allora film come questi ti toccano eccome, quindi mi toccherà prepararmi a dovere per sostenere lo sguardo di Lupita fino alla fine…

  4. Avatar di gipo

    Madonna, ho passato mezzo film a domandarmi perché questa fissazione con la pizza e poi quando si è capito perché proprio quella pizza mi sono sciolto come neve al sole…

  5. Avatar di L

    Il primo mi era piaciuto, il secondo mi aveva entusiasmato meno. Leggerti mi ha incuriosito, ma ora che so dell’argomento “sensibile”, e del gatto, sono combattuto, e probabilmente lo vedrò più avanti… Lei comunque è bravissima, non ha il riconoscimento che merita…

  6. Avatar di Frank La Strega

    Fazzoletti. Tanti fazzoletti…😅

    Bello.

    1. Avatar di Lucia

      Io in sala ero in uno stato pietoso.