
Regia – Lindsey Anderson Beer (2023)
E niente, mi dispiace, ma qui si continuano a prendere fregature. Il Day 17 della challenge richiede di vedere un film che abbia almeno una scena in un cimitero; “In a Graveyard” è la dicitura ufficiale. Avendo per le mani un nuovo Pet Sematary, la scelta era abbastanza ovvia, quasi obbligata. Ora, io sono legatissima al film di Lambert del 1989, non ho mai disprezzato il sequel, e anzi, credo sia un magnifico B movie; persino per il remake non ho speso brutte parole come hanno fatto quasi tutti quando è uscito 4 anni fa. Di conseguenza, sono partita davvero con le migliori intenzioni, nonostante l’arte del prequel sia particolarmente difficile e nonostante questo prequel nello specifico sia particolarmente inutile, anche a prescindere dalla sua efficacia.
Non credo che ricorderemo il 2023 come un anno entusiasmante per il cinema horror, ma forse ce lo ricorderemo per l’anno in cui le produzioni hanno deciso che sì, non è una cattiva idea realizzare dei lungometraggi tratti da singoli capitoli di libri di successo.
Già, perché Bloodlines è la storia di come Judd Crandall ha scoperto, da giovane, l’esistenza del terreno di sepoltura che riporta in vita i morti. Nel romanzo di King, tutta la vicenda si prende poche pagine ed è raccontata da Judd a Louis Creed allo scopo di dissuaderlo dal fare cazzate. Cosa che lui puntualmente fa, ma ne siamo consapevoli.
È una cosa che King fa molto spesso, quella di inserire dei pezzi di narrativa breve nei suoi romanzi lunghi. Pensate a IT, per fare l’esempio più eclatante. E in effetti, tutta la storia è perfettamente rotonda e compiuta e potrebbe essere inserita in un’antologia come racconto a sé, anche se scollegata dalla sua cornice più ampia. Quindi è comprensibile che, per continuare a mungere la vacca dei diritti del libro, alla Paramount abbiano pensato di adattarla per lo schermo.
Essendo Bloodlines un prequel, non del film del 1989, ma del remake del 2019, non è ambientato dopo la Seconda Guerra Mondiale come nel romanzo, ma nel 1969, durante la guerra in Vietnam. C’è sempre un ragazzo morto in combattimento che viene sepolto dal padre nel cimitero dei Mic Mac e torna in vita cambiato, però le somiglianze con l’impianto narrativo kinghiano si fermano qui, e cominciano i dolori.
Forse sono io che sono fatta strana, però a me Pet Sematary è sempre sembrato un libro sul nostro rapporto con la morte e, in seconda battuta, sulla fragilità maschile. Se dall’equazione elimini questi due fattori, ti resta in mano un blando slasher con i ritornanti al posto del maniaco mascherato.
Comprendo anche in parte l’operazione che la regista (anche sceneggiatrice insieme a Jeff Buhler) ha tentato di fare, perché molto simile a quella compiuta da David Gordon Green per la sua trilogia di Halloween: spostare l’attenzione dall’individuo alla collettività. Il cimitero al centro della storia diventa così un problema dell’intera Ludlow e dei suoi abitanti, in particolare dei discendenti dei fondatori, che hanno la missione di sorvegliare il terreno e fare in modo che nessuno ne faccia uso, e per questo motivo sono condannati a non poter mai lasciare il piccolo centro nel Maine.
Capisco anche il tentativo di voler in qualche modo storicizzare la natura soprannaturale di questo terreno, e lo condivido anche. Ma, se di Pet Sematary davvero si tratta, non può essere il nucleo di tutta la questione, altrimenti girate un film sul colonialismo e le responsabilità collettive e chiamatelo in un altro modo, perché Pet Sematary ha sempre parlato della nostra intima e dolorosa relazione con la perdita di chi amiamo e con la nostra stessa mortalità; ha sempre parlato di quello che saremmo disposti a fare per avere altro tempo da spendere con chi non c’è più, e al prezzo enorme di questo desiderio impossibile. Tutta roba che nel prequel non c’è: non ci sono i personaggi, non ci sono i rapporti affettivi, non c’è quel lutto devastante che ti morde le viscere e che ti spinge a compiere la scelta più sbagliata possibile. O meglio, c’è sulla carta, perché tutto comincia con un padre (David Duchovny) che riporta in vita il figlio morto, ma è soltanto un espediente, un modo come un altro per dare motore alla storia, non è il cuore del film.
Il cuore del film è il giovane Judd che vuole andarsene da Ludlow con la sua fidanzata Norma, ma viene ricacciato indietro dagli eventi e finisce per prendere il posto che di diritto gli spetta, ovvero quello di guardiano del faro. E verrebbe da dire: bel lavoro che hai fatto, Judd, tuo padre (un Henry Thomas che si porta sulle spalle la baracca da solo) sarebbe fiero di te. In realtà, il cuore del film non esiste, perché Bloodlines è un film che un cuore non ce l’ha proprio, sia inteso come nucleo sentimentale della vicenda narrata, sia inteso come perno cui far ruotare intorno tutto. Non ha una direzione, non ha uno scopo, gira continuamente a vuoto, e non sono sufficienti a salvarlo un paio di intuizioni visive interessanti e qualche dettaglio splatter di gran pregio.
Come dicevo in apertura, mi dispiace tanto, ma sono due giorni di fila che prendiamo dei granchi bestiali. Speriamo che domani vada meglio.











Film che non ho affatto apprezzato,personalmente i cast corali con molti individui coinvolti nella vicenda su piu’ fronti,mi piacciono soprattutto con i film catastrofici,ma in genere con l’horror,meno personaggi ci sono meglio e’,per lo meno e’ il mio pensiero,eeh si anche a me aveva divertito il sequel di Mary Lambert,molto meglio di questo!
Poteva andare peggio dai!
Pensa che c’è chi a settembre (si, perché quando sei nerd dentro, la spooky season inizia il 1 settembre) ha visto di seguito “Bad Things” e “The Elevator Game” 😦
Entrambi film dai quali mi sono tenuta a debita distanza 😀
E hai fatto benissimo, specialmente quel The Elevator Game in cui riponevo qualche flebile speranza: un creepypasta come questo, con del discreto potenziale, buttato direttamente nel cesso 🤢
Per questo prequel non richiesto del remake di “Pet Sematary” (che era piaciuto pure a me), invece, le mie speranze erano già vicinissime allo zero fin da quando ho iniziato a sentirne parlare e, purtroppo, mi confermi che i risultati NON mi hanno smentito…
È vero un 2023 con molte attese deluse (Tin & Tina, il Morso del Coniglio), sequel e reboot che non avevano molto da aggiungere (Insidious o l’ultima Casa), citazioni simpatiche di piccoli gioielli ma che in un inevitabile confronto – almeno per me – ne sono usciti così così (Totally Killer), robaccia inguardabile (e l’elenco è lungo: Winnie the Pooh, Slotherhouse, The Elevator Game…), cerebralismi che girano a noia (Infinity Pool); però anche proposte vivaci (Renfield) o sfacciate (Cocainorso), piccole produzioni eleganti (Unwelcome) e commoventi (No One Will Save You); lavori solidi con tanto da dire (Huesera) e coraggiosi (Talk to Me).