Masters of Horror 2: Dreams in the Witch House

Regia – Stuart Gordon (2005)

La nostra vigilia di Natale alternativa la passiamo in compagnia di Lovecraft e Gordon, che mi pare un ottimo modo per affrontare le feste con il giusto spirito.
Dreams in the Witch House è l’ultimo di una lunga serie di adattamenti lovecraftiani da parte di Stuart Gordon, ed è anche uno dei suoi ultimi lavori dietro la macchina da presa: dopo Masters of Horror, Gordon avrebbe diretto il bellissimo Stuck, nel 2007, e un episodio della serie gemella di Masters of Horror, Fear Itself. Poi più nulla, fino alla morte avvenuta nel 2020.
Non voglio ripetere per l’ennesima volta la solita pappardella su quanto sia complessa e conflittuale la relazione tra Lovecraft e il cinema, perché è un discorso che ormai conosciamo a memoria; voglio però sottolineare che nessuno è mai stato capace di portare lo scrittore sullo schermo come Stuart Gordon. Non parlo qui di orrori cosmici vari che a Lovecraft si ispirano, parlo proprio di trasposizioni dalle pagine dei suoi racconti. Ancora oggi, al tramonto del 2025, Gordon resta il punto di riferimento principale.
A impressionare è soprattutto la continuità concettuale e stilistica con cui Gordon ha affrontato i suoi adattamenti di Lovecraft: pare quasi di trovarsi dentro a un universo narrativo condiviso, e dico quasi perché vent’anni fa questa nozione non era proprio contemplata.

The Dreams in the Witch House è un racconto pubblicato su Weird Tales nel 1933 e ha una struttura che si adatta perfettamente al formato televisivo, possibilmente a basso budget. Si svolge infatti quasi tutto tra le quattro mura della stanza del protagonista, con dei brevi momenti all’esterno che possono essere tagliati senza troppi rimpianti. Infatti in tv lo hanno riportato nel 2022, se vi ricordate. Non ce lo hanno riportato bene, nonostante ci abbiano speso sei volte tanto rispetto alla miseria disponibile per ogni episodio di Masters of Horror; resta il segmento più debole di Guillermo del Toro’s Cabinet of Curiosities, appunto perché non c’era Gordon a metterci mano.
La storia è quella di uno studente di matematica alla Miskatonic University che affitta una camera ammobiliata in un vecchio edificio ad Arkham. Si vocifera che la casa sia infestata dallo spirito di una strega scomparsa nel 1692. Il giovane Gilman, una volta preso possesso della stanza, inizia a essere tormentato da incubi bizzarri, che forse hanno persino qualcosa a che spartire con le sue materie di studio. Affascinato e spaventato, decide di indagare. Non finirà bene.

Gordon, insieme al fido collaboratore Dennis Paoli, affronta la sceneggiatura di Dreams in the Witch House armato di ascia bipenne: taglia tutto ciò che non ritiene strettamente necessario o che potrebbe costare di più di un paio di luci viola che filtrano da una parete sbilenca; trasporta la vicenda all’inizio del XXI secolo, così ci togliamo il problema di dover girare in costume, e manteniamo soprattutto quella continuità di cui parlavo sopra: tutti i film di Gordont tratti da Lovecraft hanno un’ambientazione contemporanea. È singolare, invece, che quando ha adattato Poe abbia sempre fatto film d’epoca. 
Oltre a sfoltire, eliminando per esempio tutto il bagaglio di folclore presente nel testo di Lovecraft, Gordon cambia anche l’oggetto degli studi di Gilman: non più meccanica quantistica, ma teoria delle stringhe. Inserisce poi qualche minimo aggiustamento per dare un sapore contemporaneo alla storia, e per rispettare le uniche due regole cui i registi di Masters of Horror dovevano attenersi: sesso e violenza. 
È tutto molto coerente con il metodo di Gordon per portare Lovecraft sullo schermo: rendere esplicito ciò che era implicito, dare una forma concreta alle astrazioni, ridurre ai minimi termini gli elementi impossibili da rappresentare. 

Nel racconto, quando Gilman sogna, viaggia in una dimensione altra popolata da creature dalla forma indefinita. Per ovvi motivi, Gordon questa cosa non la può portare su uno schermo, non nel 2005 con un budget ridicolo. Ciò non vuol dire che la portata cosmica dell’orrore di Dreams in the Witch House sia accantonata. Gordon non ha bisogno di mostrare nei dettagli l’universo dal quale la strega fa il suo ingresso nella nostra realtà: gli basta un angolo storto nella camera di Gilman e gli basta far filtrare la luce violacea e malaticcia che siamo abituati a vedere nei suoi film quando le presenze dell’altrove prendono corpo davanti ai nostri occhi, attraverso le intercapedini dei muri, e costruire intorno al povero Gilman, vittima designata, una montante atmosfera di minaccia e di terrore.
Stuart Gordon è stato tra gli inventori del body horror anni ’80, quindi non è famoso per essere un regista che andava per il sottile. Al contrario, lui (soldi permettendo) metteva in campo tutto. Lo ha fatto anche quando adattava Lovecraft, anzi, ha ha trasformato i racconti di Lovecraft in body horror erotici, ma quando si trattava di dare un volto preciso all’orrore più astratto, a ciò che comunemente definiamo lovecraftiano, Gordon sottraeva e celava.

Perché, alla fine, “lovecraftiano” è un sentore, il baluginio di una realtà così grande che il nostro sguardo non la contiene, e la nostra mente non riesce a darle una misura o un nome. Ma è anche l’espressione di un desiderio inconfessabile, quello di perdere il controllo di sé e lasciarsi sedurre dall’altrove. 
C’è tutto questo nei film più famosi di Gordon tratti da Lovecraft, a partire da Re-Animator e, all’ennesima potenza in From Beyond, Castle Freak e Dagon, e c’è pure in un’opera “minore” come Dreams in the Witch House, quel delicato equilibrio tra esplicitare e nascondere, tra abbracciare l’irrazionale e fuggirne inorriditi e sgomenti. 
Gilman, interpretato da Ezra Godden, già protagonista di Dagon e quasi sosia di un giovane Jeffrey Combs, subisce il fascino dell’ignoto sin da prima che il film cominci: come moltissimi protagonisti lovecraftiani, la sua condanna è di trovare esattamente ciò che cerca, e di esserne annientato, nel corpo e nella mente. Per citare il professor Pretorius di From Beyond: “Humans are such an easy prey”.

Masters of Horror, l’ho già detto e lo ripeterò più o meno a ogni puntata di questa rassegna, ha avuto il merito di superare un bel po’ di limiti imposti al piccolo schermo, e di sfondare con la grazia di un panzer parecchi tabù. Qui, e in questo è filologico, Gordon mette in scena la morte atroce di un bambino di pochi mesi, rispettando la struttura del racconto di Lovecraft fino alle sue conseguenze più estreme.
Al solito, Gordon capisce anche l’umorismo che se ne stava acquattato tra le tonnellate di seriosità del nostro Lovecraft, e riporta pari pari dalla pagina scritta il personaggio più inquietante e più ridicolo presente nella storia, il ratto con la faccia umana, famiglio della strega, che qui non ha un nome, ma nel racconto sì, Brown Jenkin.
Il risultato finale è un’oretta scarsa di follia e di morte, che ti strappa un sorriso un istante prima e ti annichilisce l’istante successivo. Gordon in purezza, insomma. Forse l’ultima volta in cui è stato così scatenato e così sfacciatamente di genere. 
Noi ci salutiamo qui per qualche giorno, quindi ne approfitto per augurarvi buon Natale. Ci sentiamo lunedì. 
Bacini e bacetti.

Un commento

  1. Avatar di Giuseppe

    Buon Natale – lovecraftiano- a te (starò bene attento che non mi vengano fuori luci violacee sospette dagli angoli dei muri di casa)! 😉🤶

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.