The Strings

Regia – Ryan Glover (2020)

Per il post della vigilia avrei potuto scegliere qualcosa di allegro e festoso. E invece no, vi beccate il secondo film più depresso dell’anno (se volete sapere qual è il primo, lo trovate qui) perché il Natale è un periodo deprimente e gli horror invernali sono perfetti per il mio stato d’animo attuale. Come se tutto ciò non fosse sufficiente, The Strings è anche un film dal ritmo catalettico, in cui un solo personaggio vaga lungo la desolazione di una costa ghiacciata, vengono pronunciate sei parole in 90 minuti e l’atmosfera è carica di oscuri presagi e angoscia a non finire. 
Buone feste, comunque.

The Strings è un horror indipendente che arriva dal Canada ed è da poco approdato su Shudder, giusto in tempo per calpestare la nostra già ammaccata voglia di vivere. La prendo a ridere perché è un film che mi ha messa parecchio a disagio e, anche se non riesco a considerarlo particolarmente riuscito, potrebbe piacere moltissimo ad alcuni di voi: possiede la bellezza tragica di una spiaggia coperta di neve, ma anche la sua (apparente) mancanza di vita. Sappiamo che, sotto al mare gelato, si agita qualcosa, ma non lo vediamo, non lo vedremo mai nella sua interezza, possiamo a stento percepirne delle vaghe ombre. Ecco, The Strings è così: è il racconto di una sbirciata fugace nell’altrove, ma non è che succeda poi questo granché. Il film è immobile e comatoso. Se decidete di vederlo, fate scorta di caffè o di qualunque cosa utilizzate per tenervi svegli: vi servirà.

È la storia di Catherine, una musicista di successo in crisi sentimentale e creativa che, per scrivere nuovi pezzi per il suo prossimo album, si ritira in un cottage appartenuto a sua zia. Lì si fa il suo studiolo di registrazione, beve come una spugna, fuma come una ciminiera, fa lunghe passeggiate sulla riva dell’oceano e guarda video di fisica quantistica. Va poi a fare un servizio fotografico in una fattoria nei dintorni del cottage che pare sia maledetta e, da quel giorno, comincia ad avere difficoltà a dormire, sente rumori, vede cose, esce a piedi nudi di notte nella neve ed è sempre troppo stanca per produrre qualcosa di davvero buono. 
Ecco, la trama è tutta qui, se si può parlare con cognizione di causa di una roba così strutturata come una trama per un film che non possiede una vera e propria struttura narrativa.

Cosa accada davvero a Catherine (e alla fotografa con cui ha una breve relazione, Grace) non ci è dato di sapere; si possono soltanto elaborare alcune teorie. Io ovviamente, mi sono fatta un’idea, che forse è tutta sbagliata, ma forse giusto e sbagliato per un film come The Strings non esistono. Credo che sia innanzitutto un film sul concetto di creazione artistica e sul prezzo da pagare per essere dotati di quella cosa comunemente definita talento. The Strings suggerisce la presenza di qualcosa in agguato negli interstizi del reale cui va pagato un tributo per permetterci di esprimere la nostra forza creativa. Non so se sono stata chiara. Ma non importa: il film stesso non lo è. 

Per come The Strings usa il soprannaturale, mi ha fatto pensare a The Stone Tape: ha più o meno lo stesso veicolo di trasmissione, se capite cosa intendo. Catherine incide la sua musica e registra delle tracce di entità non meglio specificate; grazie all’isolamento in cui si costringe a vivere, forse all’abuso continuo di alcool, forse alla pura concentrazione necessaria a tirare fuori un intero disco tutta da sola, instaura un canale di comunicazione con un mondo altro, o addirittura con degli esseri che tirano le fila del nostro, quasi noi fossimo soltanto dei burattini nelle loro mani. Ciò avviene tramite la musica e tramite la tecnologia per registrarla, campionarla, modificarla e spezzettarla e, infine, riprodurla. Il risultato dell’apertura di questo canale sarà sì un ottimo album, ma costerà caro. 

Con queste premesse, è abbastanza logico che la musica abbia un ruolo determinante nell’economia del film, e anche qui, dipende tutto da voi: potreste considerare la colonna sonora sublime o rivoltante. Di rado mi è capitato di vedere un film così aperto alle reazioni dei singoli spettatori. Darne un giudizio anche solo in parte obiettivo, per me è impossibile. Sì, da addetta ai lavori mi accorgo di come è stato girato, del mestiere che c’è dietro, della cura con cui Ryan Glover ha superato i limiti imposi dal budget risicato per dare alla sua opera un’estetica personale e non sciatta, per non cadere, in altre parole, nella trappola del cinema indie macchina a mano e che Dio ce la mandi buona. Qui c’è una composizione del quadro elaborata ed elegante, si mira al bello. Non sempre ci si riesce, ma non perché il regista non sia capace, è che mancano i mezzi, e in alcune circostanze purtroppo è impossibile non notarlo.

Ma è anche impossibile non notare quanto siano efficaci tutte le sequenze in esterni con la luce naturale, quanta potenza abbia il paesaggio di questa remota località costiera canadese (il film è stato girato nell’Isola di Principe Edoardo) e quanto sia, allo stesso tempo, meraviglioso e sinistro, quanto amplifichi il senso di solitudine che prova la protagonista e quanto sia comunque facile scivolare in una sorta di dipendenza da questa immensità in cui sprofondare. 
The Strings è un film che ti fa sentire il freddo sulla pelle e, quando si decide a uscire dal letargo autoindotto e si ricorda di essere, almeno nominalmente, un film dell’orrore, non lesina neanche un paio di spaventi. 
Per quanto mi riguarda, si tratta di un film in perfetta linea con la mia visione dell’inverno, e quindi ve lo consiglio. Avrebbero giovato qualche sforbiciata e quel minimo sindacale di ritmo in più per non far cadere in catalessi gli spettatori. Ma non si può avere tutto. 
Buone feste, noi ci sentiamo tra qualche giorno.

12 commenti

  1. Sinceramente non so dirti se sei riuscita a convincermi a vedere questo film,direi che lo metterei nella lista d’attesa dei film da recuperare(forse)quando mi verrà voglia,ma sotto le festività preferisco evitare e puntare su qualcosa di meno comatoso! Spero comunque che tu la butti davvero sul ridere,nella speranza che le festività di fine anno non ti deprimano,ti auguro di passare un buon natale Lucia! Un abbraccio e alla prossima,ciao ciao!!

    1. Ma infatti io non voglio convincere nessuno, soprattutto su film come questo che dipendono tanto non solo dalla percezione individuale, ma anche dallo stato d’animo del momento.
      Buon Natale anche a te!

      1. 😻

  2. Ne avevo sentito parlare e dopo aver letto la tua recensione penso proprio che lo vedrò. Sono curioso di sapere che teorie potrei farmi a riguardo e inoltre è un horror che gira intorno alla psicologia del personaggio principale, una cosa che mi è sempre piaciuta.

    1. È un film per cui davvero devi elaborare delle teorie, perché non ti spiega niente.

      1. Perfetto! Mi piace questa cosa, adoro teorizzare su film appositamente resi vaghi Grazie mille!

      2. Giuseppe · ·

        E intanto che anch’io mi preparo ad elaborare delle teorie soddisfacenti (se poi, come possibile termine di paragone, citi addirittura The Stone Tape, mi inviti letteralmente a nozze), colgo l’occasione per augurarti Buon Natale ❤

  3. Harvester_Of_Sorrow · ·

    Dopo svariati tentativi ottengo la possibilità di poter vedere “My heart etc etc”, ma lo metto in lista, in quella delle urgenze da ignorare a piacimento. Mi dico “dai non guardare sempre cose pesanti e deprimenti, che poi filtri la vita ancora peggio di come già fai”, e così ho fatto sino ad ora. Poi ieri metto su The Invitation e il giuramento è infranto, salti fuori tu con questa recensione e ora non solo devo guardare My heart etc etc, ma anche questo The strings che non posso ignorare se ne parli in questa maniera. Insomma, prima o poi mi tocca rimettere su i tre Austin Powers per bilanciare tutto quanto.

    1. Io per rilassarmi tra una visione deprimente e l’altra mi guardo uno slasher e bilancio un po’ gli equilibri chimici 😀

    1. Buon natale a te!

  4. Bu!
    …on… N…at…a… uff… non riesco neanche a dirlo.
    Insomma, lovvosamente… quello! 😉

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